Zu Peppe. Parte II

I racconti di Nicola Quagliata

Zu Peppe non sapeva leggere e scrivere, come quasi tutti i coetanei del paese che come lui lavoravano la terra, e come lui ritenevano che per seminare grano, fave, potare gli ulivi, governare il mulo e stare sul carretto, non serviva saper leggere e scrivere; seppure impegnati in altre attività che non la lavorazione della terra, importanti figure della antichità non sapevano leggere e scrivere.  A detta di Antonio Calìa, il sindacalista della Camera del Lavoro, dove andava per il disbrigo di pratiche, senza farsi notare perché comportava rischio, Gesù Cristo non sapeva leggere e scrivere, e neppure Socrate, ma aggiungeva: “anche se entrambi avevano fatto una brutta fine, ma ora uno lo si va a pregare nelle chiese e l’altro si studia nelle scuole”.

Superata col carretto la salita ripida sulla Bufara, la stradella si faceva leggera sulla terra, e silenziosa, anche il mulo tirava un sospiro di sollievo e muoveva la testa in segno del benessere ritrovato, ma sopra le spalle di zu Peppe cadde una nuova preoccupazione, che poteva sembrare una cosa da nulla, ma non lo era. Finito il lavoro di macina e messo l’olio nelle damigiane si doveva recare nell’ufficio per firmare e lui piuttosto che tenere in mano pochi minuti quella penna avrebbe preferito una giornata intera di zappuliare un terreno argilloso. Non doveva fare molto con la penna, doveva tratteggiare una croce sui fogli che gli davano e gli indicavano pure dove tratteggiare la croce, ma a lui scendeva il sudore sulla schiena. Già era assai che la penna non gli si spezzasse tra le dita, e quel foglio era peggio di una salma di terra da zappare, in quel momento invidiava quelli che sapevano tenere la penna in mano e riconosceva che uno almeno la sua firma doveva saperla mettere. Per il resto, sapere leggere e scrivere non incidevano sul tenore di vita della sua famiglia o sulle sue bestie, la vacca, il mulo, il pollaio, su questa incideva invece l’andamento delle stagioni, con molta o poca pioggia, con molto o poco sole, anche se il sole era sempre troppo, e lo scirocco feroce. L’acqua, se non trascinava tutto a mare, era sempre la benvenuta. Una cosa era andare al pozzo, calare la secchia e subito riempirla di acqua, altra cosa era dover calare la secchia fino alla fine della corda, doverla strattonare per prendere l’acqua e tirarla mezza vuota e torbida della melma che negli anni e nei decenni si accumula sul fondo; passano decenni prima che un pozzo venga ripulito, e la pulizia del pozzo è una operazione complessa e delicata, con un ragazzino magro da passare dal collo e che una volta nella melma, sempre legato alla corda e tenuto da fuori del pozzo,  riempia secchi da tirare sopra e vuotare, può volerci più di una giornata; un pozzo scavato cento anni prima può avere avuto non più di una pulizia, nei ricordi di zu Peppe, il pozzo della loro casa non era mai stato mai più ripulito dopo da quando con le corde avevano calato lui, ragazzino snello come una anguilla, e con la pala e la zappa aveva smosso tutta la melma che vi si era depositata. Intanto se lo sguardo andava verso monte Cofano l’orizzonte marino sembrava assediato da nuvole nere come la cenere, la direzione di zu Peppe dava le spalle al mare e lui guardava davanti a sé, nel dubbio che il tempo potesse mutare era meglio non distrarsi. Dalla collina di Tribli guardava la pianura di Lentini, con la campagna desolata di ottobre dopo la vendemmia:

–        Se cambia il tempo e viene il temporale, il ritorno lo faccio da “Chianu Lentini”, evito la Bufara e queste stradelledissestate, almeno cammino sulla strada asfaltata, anche se allungo, questa via sul terreno la pioggia la ricopre e il carretto vi affonda con le ruote, e poi chi lo tira fuori dal fango?…-

Superata l’alba era come se gli spiritelli della natura si fossero risvegliati, col vento che iniziava a soffiare strano ed a tratti convulso, con mulinelli che creavano colonne di polvere che all’istante ricadevano per rialzarsi in un diverso punto. La vegetazione secca ed asciutta aveva aspetto scheletrico che tremava coi soffi di vento. Sul mare di fianco a Cofano le nuvole si rincorrevano e quelle nere inghiottivano tutte le altre ed avevano davanti a se il cielo azzurro ancora pulito, il mare cambiava colore e si gonfiava. Dal carretto zu Peppe vide la sagoma dell’oleificio e diede uno spuntone al mulo perché aumentasse il passo.

Arrivare nell’area davanti al frantoio, liberare il mulo dal carretto e legarglielo vicino, aiutare gli operai della macina a trasportare le ulive per macinare e riempire i fusti di olio fu un lampo, così come lettere il mulo di nuovo al carretto e caricarlo dei fusti di olio. Zu Peppe, col suo olio, era pronto per il viaggio di ritorno, a casa avrebbero fatto una ricca insalata di pomodori, origano, cipolle, olive nere, sarde salate e olio nuovo. Avrebbe mangiato l’olio nuovo. Lo aspettavano.

Ma quando l’olio fu messo nei fusti, pronto per essere caricato sul carretto, il cielo era scomparso, al suo posto il nero delle nuvole, che lo aveva ricoperto, minacciava la terra, sembrava volesse divorarla. Il mulo sentiva il maltempo che era arrivato, sbatteva con furia gli zoccoli sul suolo e dimenava la testa, come zupeppe non lo aveva mai visto fare. Gli operai del frantoio accompagnarono zu Peppe ad un angolo dell’area davanti l’opificio, un punto sollevato, e gli fecero guardare e respirare quel cielo minaccioso, gli dissero che conteneva tutta l’acqua che non aveva piovuto da un anno, e non si sarebbe trattenuto dal riversarla sulla terra. Gli dissero aspetta che passi il temporale, non partire ora. Zu Peppe non li ascoltò, disse loro che col suo carretto aveva visto tanti temporali e c’era passato in mezzo, questo era uno dei tanti, ed a casa lo aspettavano, lui partiva ed avrebbe pranzato con la famiglia. Ma concordò con loro che non sarebbe rientrato dalla Bufara, avrebbe preso la strada del piano Lentini, avrebbe camminato sull’asfalto ed il percorso sarebbe stato più comodo, con soltanto una parte di strada in salita nel rientro in paese dall’Assiene, fino allo Sperone, poi di nuovo discesa sull’asfalto comodamente fino alla Immacolatella. Gli operai dell’oleificio lo ascoltavano senza però capacitarsi, zu Peppe aveva la testa dura e non c’era niente da fare per fargli cambiare idea.

E zu Peppe partì gia sotto una pioggerella fine con il suo olio caricato sul carretto, per se aprì un ombrellaccio per ripararsi e sulla testa e sul collo del mulo mise una cerata. Il mulo era nervoso e continuava a battere gli zoccoli sul terreno ed a ondulare la testa a destra e a sinistra; era il suo modo di esprimere un dissenso, che zu Peppe conosceva ma che ora volle ignorare.

Nel corso della seconda guerra mondiale i militari costruirono delle piccole fortezze in ferro e cemento, ipogee, rotonde, larcge non più di tre metri, che ospitavano armi di artiglieria, ed una di queste casematte, perché così si chiamano, era proprio all’incrocio di Lentini, ed all’altezza di quella casamatta zu Peppe era arrivato quando si aprirono tutte le sorgenti del cielo e l’acqua scese sulla terra come nella alluvione di Noè. In quel punto, dove era arrivato zu Peppe col carretto, si raccoglieva con furia l’acqua che scendeva da un enorme canalone detto la Bocca del Drago, cercava con rabbia il punto dove continuare la sua corsa, un rio sempre tranquillo circondato da canneti, e verso quel rio la furia dell’acqua si diresse, trascinando con se mulo e carretto.

L’ultima cosa che zu Peppe vide oltre la coda, le orecchie e gli occhi rossi fuori dalle orbite del mulo nell’ultimo tentativo di saluto su questa terra al suo padrone, fu una tromba d’aria al centro del piano Lentini,che si innalzava nel cielo come un drago, e come il collo lungo di un drago si muoveva flessuoso come a guardarsi intorno minaccioso, circondato di lampi,  per poi con crudeltà gettarsi con acqua e saette sulla terra.

Fine.

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