Michele Colasanti, un racconto a puntante. Parte prima

I racconti di Nicola Quagliata.

MICHELE COLASANTI, un racconto a puntante

Michele Colasanti, impiegato comunale – di categoria B5 della struttura retributiva del personale operante nelle aree della pubblica amministrazione – un giorno fu convocato, per l’indomani alle ore 12.30, dal dirigente di Area, a Trapani, presso il ristorante Ai Ludi di Corso Vittorio Emanuele.

  • Veni Colasanti, chi ni facemu ‘nagranni manciata di pisci di Santu Vitu. (Vieni Colasanti, che ci facciamo una grande mangiata di pesce di San Vito).

Il dirigente lo ha convocato con regolare ordine di servizio messo a protocollo, valido come missione, quindi con l’autorizzazione all’uso del mezzo proprio e rimborso di tutte le spese, di benzina e di trattoria.

L’ordine di servizio scritto arrivò a Michele Colasanti nella tarda mattinata, trascorsa fino a quel momento nell’ansia e col pensiero fisso su quanto gli sarebbe costato il viaggio, e se conveniva andare in auto, in pulman o col treno.

L’autorizzazione all’uso del mezzo proprio gli fece tirare un sospiro di sollievo, e gli fece riprendere pure il buon umore che aveva perso il giorno prima quando lo stesso dirigente, l’architetto Alfio Manzella, appassionato di storie e misteri palermitani, gli aveva raccontato l’origine del suo cognome, individuando anche un suo antenato, pure lui Michele, e Colasanti.

Il dirigente, appassionato di storie antiche palermitane,  faceva risalire il suo cognome al mille e seicento, e proprio ad un Michele, impiegato presso i Benedettini di Palermo, nelle catacombe, come addetto alla conservazione e mummificazione dei cadaveri dei monaci, ed anche dei ricchi aristocratici  palermitani che dietro altissimi compensi in denaro, palazzi, terre ed opifici, si facevano mummificare e tumulare nelle catacombe, spesso ornati dei loro stessi gioielli, anelli con smeraldi o topazi alle dita, bracciali d’oro ai polsi e pesantissime collane d’oro al collo in mostra sopra i vestiti.

  • La vanità se la portavano anche dopo la morte, non abbandonavano le mondane miserie criticate dai saggi e dai santi -disse l’architetto Alfio Manzella suo dirigente al comune- coi loro

ricchi abiti ed ornamenti intendevano, da vivi, distinguersi da morti, ed ancora incutere il timore, il rispetto e la riverenza sui vivi che si fossero trovati a guardarli, e che il loro stato sociale richiedeva, anche nell’aldilà. Avevano sostituito la virtù delle armi per la conquista di ricchezze, titoli e feudi, con la mondanità e la retorica dell’onore. Che il paradiso fosse un diritto divino del loro stato sociale non era messo in dubbio, ma che dovessero poi condividerlo coi pezzenti e col popolo, questo era meno confortevole per loro, e non lo accettavano. Se Dio aveva creato le differenze sociali sulla terra, coi grandi privilegi della aristocrazia e della nobiltà, e la povertà estrema per i poveri, perché mai doveva abolirle poi nel suo regno? Se da vivi quegli abiti lussuosi e quegli ori cementificavano il loro stato sociale ed i loro privilegi, da morti assumevano una duplice funzione, verso i vivi che restavano ad ammirarli nel convento dei Benedettini e verso i morti che si sarebbero loro presentati nel regno sacro di Dio.

 Ebbene, questo suo antenato, che portava il suo stesso nome di Michele, era addetto ad una particolare mansione sui cadaveri, che era quella di asciugare la traspirazione e la colatura del sudore causati dal particolare microclima del luogo, lo stesso microclima che consentiva la conservazione miracolosa dei corpi senza vita, dunque colasanti. I monaci registrarono quel loro dipendente, fin da piccolo impegnato in quella attività sui cadaveri, come Colasanti, e furono loro a dargli il nome di Michele, in onore del Michele Arcangelo guerriero instancabile del bene, impegnato nella lotta contro le forze del male, e perché Michele tenesse lontani dai morti gli spiriti maligni ed al sicuro le loro anime.

Nel buon umore guadagnato Michele pensò di uscire in serata a prendere un caffè al bar sul corso, e passeggiare per le viuzze del paese illuminate appena appena da tremolanti lampadine distanziate, una per ogni via.

Quando Michele era più giovane andava spesso a Trapani, non per servizio, il dirigente non lo aveva mai mandato in missione. Gli capitava di andare a Trapani in occasione della proiezione nei cinema di film famosi e di successo, di cui tutti i giornali parlavano; film con Marlon Brando, con Robert De Niro, oppure di grandi registi come Steven Spielberg, Martin Scorsese, Alfred Hitchcock, Quentin Tarantino. Si univa ad altri amici, riempivano una macchina o due, prendevano l’autostrada a Segesta ed andavano.

I film nuovi venivano proiettati per prima nei cinema del capoluogo, all’Ariston, Esperia, Diana, Apollo, dopo un anno gli stessi film arrivavano in seconda e terza visione nelle sale cinematografiche dei paesi; tutti gli appassionati di cinema correvano a Trapani a vedere la prima visione del film importante. In genere dopo il film e dopo il cinema andavano a donne, prostitute che non erano care e che quasi sempre arrivavano da Napoli o dalla Calabria, qualche volta anche da Roma e da Milano.Le romane e le milanesi erano le più care, ed in genere la loro presenza nel capoluogocon la proiezione nelle sale di film famosi.

I film famosi facevano accorrere molti giovani dai paesi di tutta la provincia che, dopo il film, quelli che avevano i soldi, andavano a fare la fila dalle romane.

Una volta capitò che una  romana, lo cacciò dalla stanza con la scusa che era sporco e che puzzava, cosa non vera, e lui imbestialito andò a cercare una cabina telefonica e chiamò una persona nominata del suo paese, questo fece subito intervenire i carabinieri, la sera stessa,  che le diedero il foglio di via.

A Michele piaceva avere amicizie che si mettevano a disposizione per un favore. Una volta andò a trovarne uno al soggiorno obbligato in Puglia, era affascinato dalle maniere affabili e dalla gentilezza piena di attenzione con cui lo trattavano, lo facevano sentire importante. Nessuno della categoria C tra i dipendenti comunali era capace di ricevere tanto rispetto e considerazione da queste persone, lui ci sapeva fare, e tanta era l’ammirazione che ne aveva, e la compenetrazione, che, senza neanche pensarci, poco a poco, e senza nemmeno accorgersene, impostò la sua voce e si mise a muovere le mani e lebraccia e la testa sopra le spalle, con la stessa affabilità e dolcezza, che sapeva di accondiscendenza verso gli interlocutori, dei nominati del paese.

Ora il dirigente di Area lo convocava a Trapani, in un ristorante nel cuore cittadino, in Corso Vittorio Emanuele, poco distante dalla Loggia, con autorizzazione all’uso del mezzo proprio, quindi la copertura delle spese, e con la promessa di un ricarico di ore di straordinario sulla busta paga.

In città

L’indomani Michele Colasanti posteggiò l’auto sotto la statua di Garibaldi,

scese e chiuse a chiave la macchina, alzò la testa e lo guardò diritto negli occhi, quasi a volergli comunicare il suo stato di contentezza e soddisfazione, poi attraversò lo stradone in un momento in cui non passavano auto e si diresse sulla banchina, da dove guardò il mare calmo, piatto e trasparente, con i traghetti per le isole ormeggiati, e barche a vela con alberi altissimi come guglie di  cattedrali che ondulavano con isolati tintinnii che sembrava provenissero da luoghi remoti,  e muovevano lo scafo, forse per un   certo vento che soffiava in alto, perché raso terra tutto era calmo, neppure un venticello di mare.

Sulla banchina del porto, davanti ai traghetti della Caronte &Tourist e della Liberty Lines, sostavano file ordinate di passeggeri in attesa di salire a bordo per le diverse destinazioni, Pantelleria, Ustica, Favignana, Levanzo, Marettimo, Napoli, Golfo degli Aranci in Sardegna.  Un cartellone con mare azzurro, spiagge, cielo e palme ed una signorina sorridente in costume da bagno, diceva, con scritte gialle, Trapani al centro del Mediterraneo equidistante dal Calale di Suez e lo Stretto di Gibilterra.

Michele riattraversò lo stradone, questa volta con le spalle al porto, incurante del traffico, zigzagando tra le auto di passaggio in entrambe le direzioni, passò sotto la statua di Garibaldi rasentando il podio di marmo bianco perlato di Custonaci, guardò curioso dentro al ristorante all’angolo della piazzetta, la piazzetta Garibaldi, coi tavoli coperti da tovaglie gialle con un vasetto di vetro a centro tavolo, con dentro fiori di gladioli, e le sedie appoggiate in attesa di clienti. Imboccò la stradina di fianco al ristorante, e volgendo le spalle al monumento, al molo ed al traffico di auto, si addentrò per le vie scure del centro storico, diretto a Corso Vittorio Emanuele.

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