Maledetti assassini, maledetti complici

Trentanove anni fa l’omicidio del sostituto procuratore Ciaccio Montalto, isolato per le sue intuizioni e le sue indagini contro Cosa nostra e contro quella cultura diffusa dalla mafia borghese. La nostra proposta: istituiamo una fondazione col suo nome

Dovranno passare anni dalla morte di Gian Giacomo Ciaccio Montalto per scoprire che già da quel 1983 a Trapani c’era un tavolino dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi, c’erano le stanze di un tempio massonico, quello della Iside 2, dove mafiosi, burocrati, politici e giudici si mettevano d’accordo, dove molti affari venivano e lo saranno ancora per molto tempo ancora, regolati dalla corruzione e dove l’acquisto di voti sfruttando il bisogno della gente era la regola, mentre i mafiosi diventavano imprenditori per gestire importanti business, come quello dei rifiuti, o si occupavano di sanità e poi di appalti pubblici. Come oggi si continua a fare e nei sporchi affari che ancora oggi vengono scoperti c’è un filo che ripercorso a ritroso finisce con il raggiungere quegli anni, e i faldoni sui quali Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva lavorato. Era il 25 gennaio del 1983 quando i killer mafiosi uccisero a Valderice il magistrato appena quarantenne, sostituto procuratore a trapani e prossimo al trasferimento alla Procura di Firenze. Il tratto drammatico che oggi vogliamo segnare con evidenza non è solo quello della morte per mano mafiosa e assassina di quel magistrato, ma che oggi alcuni dei protagonisti di quella stagione non hanno pagato a fondo per le loro responsabilità. E non puntiamo l’indice solo nei confronti degli appartenenti al mondo criminale di Cosa nostra, ma anche a una serie di soggetti che si portano addosso la responsabilità di avere isolato il magistrato e l’uomo Ciaccio Montalto, di avere sporcato col fango alcuni dei suoi più vicini collaboratori, e il nome che desideriamo gare con assoluta chiarezza è quello di Giorgio Collura, un poliziotto onesto e pulito, integerrimo quanto Ciaccio Montalto, travolto da una indagine che qualcuno studiò a tavolino, mai del tutto risarcito nemmeno dall’assoluto proscioglimento. Ci sono soggetti, come l’ex giudice Raimondo Cerami, oggi commissario del Libero Consorzio dei Comuni di Trapani, che hanno continuato a fa carriera, sebbene col loro silenzio pare non abbiamo fatto scoprire in tempo la corruzione che ci sarebbe stata dentro al Palazzo di Giustizia di Trapani. Cerami si ricordò di un tentativo di corruzione che avrebbe subito solo dopo aver visto il corpo del collega crivellato di colpi. Vicende ricostruite dal Csm in atti che oggi meriterebbero di essere letti ad alta voce. In quelle carte si può leggere che colleghi di Ciaccio Montalto addirittura avevano sospettato che corrotto era proprio lui.  Potremmo fare anche l’elenco dei mafiosi indagati da Ciaccio Montalto che hanno conosciuto la galera tantissimi anni dopo l’omicidio di Ciaccio Montalto, rimasti così per decenni a comandare e a tessere tele di rapporti criminali. Così come i nomi di politici che negavano l’esistenza della mafia. Ciaccio Montalto fu ucciso perché era diventato un bersaglio per l’isolamento nel quale era finito, lui che era un precursore di metodi investigativi di attacco a Cosa nostra, come il sequestro e la confisca dei beni, perché portava dentro di se un profondo senso del dovere, perché aveva capito che Cosa nostra a Trapani era qualcosa di più delle coppole e delle lupare, ma al comando di essa vi erano i borghesi, esponenti della società patrizia, perché era divenuto avversario di quella società criminale che era diventata un’unica cosa con la società “civile”, il clima coeso di avversione contro di lui aveva questa forma, sopratutto da quando aveva messo sotto inchiesta le banche e quel denaro che la mafia riciclava negli sportelli bancari trapanesi e che spendeva poi per gli investimenti e nella corruzione. Ciaccio Montalto era ben cosciente che la mafia borghese aveva seminato nel territorio trapanese la propria cultura, che era imperniata, e lo è ancora, sul controllo della persona: vivere da liberi era cosa che suscitava fastidi, in parte ancora oggi è così. Sono tante le pagine di quella stagione  che dovrebbero essere lette, ci sono  tante pagine ancora coperte da segreto, carte sono custodite negli archivi inviolati dei Servizi Segreti che in quegli anni a Trapani si muovevano parecchio, come si comprende da indagini che si sono sviluppate molti anni dopo.

Chi era Ciaccio Montalto? Quarantenne sposato, lasciò la moglie e tre figlie di 12, 9 e 4 anni. Tre giorni prima del suo delitto a Palermo l’Anm si era riunita a congresso ed aveva chiesto al governo (ministro della Giustizia Clelio Darida) maggiore impegno nella lotta alla mafia. Erano stati uccisi Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Lenin Mancuso, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Dalla Chiesa e sua moglie, Boris Giuliano. Come sostituto procuratore Ciaccio Montalto a Trapani aveva svolto le indagini sui clan dediti al traffico di eroina, al commercio di armi, alla sofisticazione di vini, alle frodi comunitarie e agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968. Per primo aveva intuito la centralità di Trapani nella mappa mafiosa. La sua inchiesta sul traffico delle armi verrà ripresa da Carlo Palermo, a sua volta vittima di un attentato (2 aprile 1985). Scampò al tritolo mafioso, che fece strazio invece di una donna, Barbara Rizzo, e dei suoi figlioletti di sei anni, i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta.

Ciaccio Montalto si ritrovò giovane ad essere la memoria storica della procura di Trapani dove lavorava dal 1971. Questa, più della vendetta per le indagini, è la ragione per cui la mafia ritenne necessario ucciderlo. Il magistrato aveva colpito gli interessi delle cosche applicando senza attendismi la legge sul sequestro dei beni “la Rognoni-La Torre” approvata nel settembre 1982 ed aveva individuato sin da allora il ruolo di Riina, Provenzano, Messina Denaro, Bagarella, e dei boss locali, dei Milazzo di Alcamo, del clan locale dei Minore, aveva portato davanti alla Corte di Assise alcuni esponenti di queste cosche. Poco prima di essere ucciso il magistrato aveva rivelato che durante il processo un imputato gli aveva fatto un segno che nel linguaggio mafioso significa condanna a morte.

Il processo a Caltanissetta sulla sua morte, molti anni dopo, registrò alla perfezione la realtà trapanese. La società di benpensanti, le collusioni con Cosa Nostra. Negli anni ’80 la provincia di Trapani era divenuta terreno per la scalata al potere dei corleonesi. L’apice nel novembre del 1982 quando venne fatto sparire durante una cena di boss nel palermitano, a Partanna Mondello, a casa di don Saro Riccobono, il capo dei capi della mafia latifondista trapanese, Totò Minore. Pochi giorni dopo quella cena di morte la pax voluta da Minore cominciò a frantumarsi. Cominciarono a morire gli avversari interni ed esterni delle cosche, coloro i quali per i corleonesi di Totò Riina erano dei nemici. E il giudice Ciaccio Montalto fu tra i primi a finire nel mirino, perché Cosa Nostra aveva più di una ragione per avere paura per quel magistrato. «Ciaccinu arrivau a stazione» disse un giorno in carcere il capo mafia di Mazara Mariano Agate, «era arrivato alla stazione, al capolinea».  All’ergastolo perché mandanti dell’omicidio del sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto sono stati condannati gli alleati di sempre di Cosa Nostra siciliana, Totò Riina e Mariano Agate.

Chi rimpianse di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, fu lo scrittore Vincenzo Consolo. Da giornalista, raccolse una sera lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto a Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale “L’Ora ” il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto. Consolo ricorda: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse”. Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera. Di quelle minacce condite con l’oblio che continua ad essere caratteristica di questa città che in tutti i modi cerca di far dimenticare il suo passato, cancellandolo con la negazione dei fatti, dove «normalizzare» resta la parola d’ordine.

La mafia trapanese contro la quale indagava Ciaccio Montalto era quella che per anni riuscì a tenere incagliati, chiusi negli armadi del Palazzo di Giustizia, una serie di processi: dovevano essere celebrati nel 1980, per vedere i relativi boss imputati alla sbarra di anni ne sono occorsi quasi 20. E ci sono voluti magistrati giovani, animati da senso del dovere, uno di questi magistrati oggi è il capo della Procura di Trapani, Gabriele Paci. I boss invece di stare in carcere dove era sicuro dovevano finire una volta condannati, grazie al ventre molle della giustizia, continuarono a gestire gli intrecci con la politica e l’impresa, i grandi affari, alcuni, sopravvissuti alle faide, hanno anche potuto gestire in tranquillità la transizione. E questo fino all’inizio degli anni ’90 quando i processi contro di loro si cominciarono a celebrare e a finire conclusi da sentenze di condanna.

Trapani intanto ha continuato ad onorare i mafiosi, i politici collusi, e tutto questo non è accaduto per caso. Ma secondo raffinate menti, regie perfette. A Trapani c’erano stanze (ma forse non sono del tutto dismesse) dove si regolavano al meglio i rapporti tra mafia, politici, impresa, poteri forti, poteri istituzionali, faccendieri.

Parlare di Ciaccio Montalto oggi. Usando le parole dell’ex procuratore di Bologna, Enrico De Nicola, «il ricordo è la traccia da seguire per il futuro». E poi lo disse il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto, «per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». Ciaccio Montalto non ha potuto concludere il suo lavoro, con quel perfezionismo che lo distingueva: non è riuscito a sconfiggere la mafia, perché la mafia glielo ha impedito.

In quegli anni ’80 in Sicilia una parte dello Stato e la mafia – antistato – avevano cominciato a cercare un possibile incontro. Le trattative fatte sulla pelle di tanti magistrati, giudici, investigatori onesti. A Trapani Ciaccio Montalto indagava sui mafiosi, mentre latitanti come Totò Riina e Bernardo Provenzano, trascorrevano anche qui le loro latitanze, i figli di Bernardo Provenzano andarono a scuola proprio a Trapani. Qui i latitanti incontravano i loro “soldati” ma anche la massoneria deviata, tenevano summit riservati, entravano dentro i salotti. Decidevano le mosse che portarono alle bombe e alla strategia stragista, dalla strage di via Pipitone Federico a Palermo, dove fu ucciso Rocco Chinnici, ai 15 morti del treno «rapido 904», antivigilia di Natale del 1984, alla strage dimenticata (1985) di Pizzolungo contro il pm Carlo Palermo e l’attentato (1989) all’Addaura (fallito) contro Giovanni Falcone e che culminerà nelle stragi del 1992 e del 1993. Il filo rosso è lo stesso, basta volerlo vedere.

La mafia borghese oggi non è sconfitta, al suo comando c’è il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso che ha raccolto le eredità del padre, don Ciccio Messina Denaro, e quella di Totò Riina e Bernardo Provenzano, che ha deliberato la sommersione della mafia e la mafia oggi ai suoi ordini non spara più per potere continuare a fare affari.

Attorno a questi gravissimi fatti criminali si muove uno scenario che è fatto di mafiosi, massoni, uomini dei servizi segreti, deviati o non deviati, politici e colletti bianchi collusi. Uno scenario non del tutto dissolto. Ma se ne parla e se ne scrive poco, troppo poco. Le nuovi generazioni oggi non sanno nulla di quegli anni, e quando non si conosce abbastanza si rischia di ricadere nelle trappole. Dobbiamo impedirlo. L’idea che lanciamo è quello di creare una fondazione, si potrebbe acquistare la casa che fu del magistrato, proprio di fronte al Palazzo di Giustizia, riempirla di armadi dove cominciare a mettere dentro faldoni di atti giudiziari e investigativi, pagine da leggere in modo approfondito. Perché Trapani ha bisogno di sapere tutto quello che c’è da sapere sui  mafiosi e sulle loro malefatte.

Trapani, città  dove non c’è giorno che non soffi il vento. A Trapani è lo scirocco il vento più impetuoso che porta la sabbia del deserto, granelli di sabbia che a loro volta si diffondono nel resto del territorio, della provincia, della Sicilia, una volta questi granelli di sabbia raccoglievano le cose peggiori e contaminavano tutto quello su cui si posavano, oggi questi granelli raccolgono cose nuove, l’impegno, il desiderio di legalità, la voglia di azzerare la mafia che hanno dentro di se tanti giovani, e allora è altra la contaminazione che la sabbia del solito scirocco può portare in giro.

E’ un dovere oggi raccontare come in questa terra per decenni Cosa nostra riuscì a tenere “cani attaccati” come ha raccontato il pentito Giuffrè, i “cani” erano magistrati e forze dell’ordine, Cosa nostra non voleva nessuno messo alle calcagna. E la società trapanese si è limitata sempre a guardare tutto questo, tutto quello che le accadeva intorno come se niente fosse affar suo, a Trapani nemmeno oggi c’è grande voglia di leggere o di  sentire raccontati determinati fatti. C’è chi sostiene che la “maffia” è nata a Trapani. Non ha torto, viene da dire, a leggere anche la storia. Era il  3 agosto 1838, quando il procuratore del Re Pietro Calà Ulloa così scriveva al ministro della Giustizia Parisio a proposito di Trapani: “La venalità e la sommissione ai potenti ha lordato le toghe di uomini posti nei più alti uffici della magistratura. Non vi ha impiegato che non sia prostrato al cenno ed al capriccio di un prepotente e che non abbia pensato al tempo stesso a trae profitto dal suo Uffizio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora di incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Come accadono i furti, escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò hanno creduto meglio divenire oppressori, e s’iscrivono nei partiti”.

A Trapani la mafia è riuscita a fondersi con la società civile, la politica e l’imprenditoria, la mafia sommersa è nata qui prima che altrove, se ne è stabilita l’esistenza tra stanze pubblici e segreterie di deputati e senatori, dentro banche, discutendo in mezzo a saline e vigneti. Il consenso della gente anno dopo anno è salito, e la mafia qui si è circondata di una sorta di perbenismo che si è tappato il naso per non volere sentire il fetore di morte che quella mafia si porta ancora oggi appresso.

Quello che non deve più accadere è il fatto che devono trascorrere decenni per sapere i nomi dei responsabili delle malefatte, non deve più accadere che politici collusi vengano riconosciuti tali solo dopo essere usciti dal Parlamento o da qualsiasi altra aula istituzionale, come è successo per un paio di parlamentari, come il senatore Tonino D’Alì, che con tanto i aureola del sospetto attorno riuscì addirittura a stare seduto per cinque anni su una poltrona del Viminale, la sede del Ministero degli Interni dove faceva il sottosegretario e pretendeva di spostare come pedine gli uomini delle istituzioni o della magistratura e della stessa polizia che indagavano e si adoperavano a contrastare Cosa nostra: uno di questi era il prefetto Fulvio Sodano, trasferito nel luglio 2003 da Trapani ad Agrigento nel giro di una notte.

La mafia si è fatta qui a Trapani una sorta di contorno di invincibilità. Oggi è una mafia che resiste, fa le truffe e paga le mazzette per restare a galla. Resiste con i soliti mezzi e mezzucci, nei Palazzi di Giustizia è ancora facile per loro trovare la parte di ventre molle. Oggi ricordiamo Ciaccio Montalto mentre ci sono boss mafiosi che una volta scontate le pene detentive, sono riusciti addirittura a sfuggire ai circuiti dei controlli di sicurezza, con tanto di sentenze, anche recenti, che hanno riconosciuto il venir meno della loro pericolosità. La corruzione è il suo nuovo campo d’azione di Cosa nostra, i mafiosi la usano meglio delle armi. Ma non tutti se lo vogliono sentire dire.

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Rino Giacalone
Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.