La Via Crucis di Paolo Conigliaro, Luogotenente dei Carabinieri

di Lorenzo Frigerio*

Risale a mercoledì 15 dicembre u.s. l’ultimo schiaffo inferto alla dignità professionale e umana di Paolo Conigliaro, Luogotenente dell’Arma dei Carabinieri. Il suo lungo cursus honorum è frutto dei moltissimi anni (ben 35) passati in prima linea per dare battaglia a mafie e corruzione, avendo subito attentati in nome dello Stato. Quello stesso Stato che ieri, tramite il Tribunale Militare di Napoli, lo ha condannato ad una pena di 5 mesi e 5 giorni di reclusione militare per il reato di diffamazione militare aggravata.

Una diffamazione che è stata riconosciuta come reato per avere condiviso con alcuni suoi stretti collaboratori dei commenti nei confronti di altri colleghi, giudicati lesivi della loro reputazione. E quale sarebbe stata la pubblicità data a questi giudizi? Un comunicato o una conferenza stampa? Un’intervista ad un giornale o una radio oppure una “ospitata” in un talk show di una tv locale o nazionale? Un post o un tweet pubblicato sui social e visibile a tutti?

Nossignori, niente di tutto ciò. La pubblicità delle offese sarebbe stata offerta da una conversazione privata, anzi, per meglio precisare, una chat di Whatsapp, per definizione chiusa e riservato ai soli sei partecipanti. Una chat, all’interno della quale, pensando di essere tra colleghi accomunati da valori e vissuti, Conigliaro si è sentito libero di condividere valutazioni su fatti e persone, senza minimamente pensare che il suo pensiero sarebbe stato comunicato all’esterno di quell’ambito ristretto. Fatto invece avvenuto, per mano di un anonimo, poi accertato essere un dei componenti della chat e al momento rimasto inspiegabilmente “illeso” sia da provvedimenti di natura giudiziaria che disciplinare.

Dodici le frasi incriminate e finite sotto i riflettori, compresa un’immagine del famoso comico Stan Laurel (quello del duo Stanlio e Ollio, caro a tanti affezionati fans) goliardicamente riferibile ad un superiore della scala gerarchica. Per quattro delle dodici frasi il Tribunale ha stabilito che il fatto non costituisce reato, confermando invece la responsabilità penale per l’immagine del celebre attore vincitore di un Oscar.

Queste conversazioni sono state oggetto prima, di un processo a Palermo davanti al G.I.P., chiusosi con un’archiviazione e poi, contemporaneamente e nonostante il principio giuridico del “ne bis in idem” che vieterebbe di processare una persona due volte per gli stessi fatti, di altro e analogo procedimento davanti al Tribunale Militare di Napoli iniziato più di un anno fa. Tribunale Militare che ieri, al termine di ben 12 udienze e 26 testi, è giunto all’incredibile – per noi ovviamente e non per i giudici – condanna per diffamazione militare aggravata.

Da questo verdetto discende una prima considerazione.

In tempi di globalizzazione e social media, con strumenti di comunicazione tecnologicamente avanzati, diventa complicato comprendere come tutelare uno dei diritti fondamentali costituzionali dei cittadini, ossia quello della riservatezza della corrispondenza privata, se a tale fine diventa equiparabile anche un gruppo chiuso di whatsapp che, ricordiamo essere una piattaforma di messaggistica istantanea e non un social media.

Venendo però al merito della particolare Via crucis cui Conigliaro è stato sottoposto in questo periodo sono altre le riflessioni da fare.

Innanzitutto è possibile parlare di diffamazione in presenza di un giudizio condiviso con altri partecipanti alla chat, espresso nei confronti di un collega, non solo quando i fatti sono conclamati e documentati per tabulas ma quando addirittura gli altri partecipanti anticipavano tali giudizi? È infamante apostrofare un carabiniere come “infame e traditore” sospettato verosimilmente di aver “infangato” la divisa che porta? È infamante segnalare all’interno di un contesto di appartenenti all’Arma il marcio che si è costretti a registrare, in attesa che il pensiero privato possa diventare oggetto di approfondimento giudiziario? Oppure in nome di un malinteso spirito di corpo, Conigliaro non avrebbe dovuto dire nulla di quello che stava avvenendo a Capaci, senza affidare il proprio sfogo a colleghi che reputava fidati?

Non va, infatti, dimenticato il contesto in cui questa chat è stata utilizzata come arma letale impropria per colpire il Luogotenente. Il tutto è avvenuto a Capaci, comune tristemente noto per la strage omonima del 1992 (avvenuta peraltro nel territorio del comune di Isola delle Femmine), dove Conigliaro viene assegnato al comando della locale stazione dei carabinieri.

Abituato da sempre a fare inchieste e non a passeggiare e stringere mani, il Luogotenente con una lunghissima esperienza di comando su tutto il territorio nazionale, incomincia a raccogliere elementi che lo portano a formulare una proposta di scioglimento del Consiglio Comunale per presunte infiltrazioni mafiose. Un Consiglio Comunale dove siedono anche carabinieri prestati alla politica.

Della richiesta riguardante Capaci si perdono le tracce al Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo e mai la stessa perverrà alla Prefettura di Palermo, dove il fascicolo in questione doveva essere istruito, prima di essere trasmesso al Viminale per la decisione finale. Anomalia non da poco e al centro degli approfondimenti che la Commissione Antimafia, guidata da Nicola Morra, sta effettuando negli ultimi mesi, proprio su quanto avvenuto nel territorio del comune palermitano, in ragione anche di connessioni con il sistema Montante.

Sullo sfondo del mancato scioglimento, si collocano interessi economici e non solo, che si nascondono dietro la progettata realizzazione di un centro commerciale, una vicenda che s’intreccia a filo doppio con l’affaire Montante, l’ex leader di Confindustria Sicilia, la cui ragnatela di potere partiva da Caltanissetta per arrivare a Roma, nelle stanze che contano. In merito, anche dall’audizione dello stesso Conigliaro e di alcuni giornalisti, che si sono occupati con le loro inchieste di tali fatti, è emersa tale ragnatela.

Un business importante dove i contatti tra imprenditoria, politica locale e Arma dei Carabinieri costituiscono il grumo di interessi che finisce per avvolgere nelle sue spire il soggetto da espellere. In questo contesto maturano prima la rimozione di Conigliaro dal comando della stazione di Capaci e poi la successiva messa in stato d’accusa, il cui infamante antipasto è una degradante perquisizione personale in cui veniva completamente denudato da altri colleghi. Il tutto per una indagine di diffamazione: un affronto che il Luogotenente non meritava certamente.

Da quel momento parte la singolare Via Crucis che vede Conigliaro passare da inquirente ad inquisito, senza che ce ne siano i presupposti. Palermo prima e Napoli poi sono le stazioni principali di questo lungo e snervante pressure test fino all’epilogo di ieri, in un generalizzato imbarazzo dei vertici dell’Arma, pur fortunatamente con le poche eccezioni del caso.

Che bilancio trarre da questa complicata vicenda che ha finito per mettere all’angolo un rappresentante di una fondamentale istituzione quale l’Arma dei Carabinieri?

Non ci sono dubbi. Lo Stato in questa vicenda ci perde sicuramente almeno per due ragioni.

La prima ragione è costituita dall’inutile dispendio di energie e risorse economiche e professionali che ci sono volute per il processo al carabiniere, prima a Palermo e poi a Napoli. Energie e risorse che avrebbero meritato ben altro impiego, magari proprio per approfondire le questioni denunciate proprio da Conigliaro anche in riferimento ad altri e alti esponenti dell’Arma dei Carabinieri. L’impressione è che una volta messa in moto la macchina giudiziaria, soprattutto quella in sede militare, non si sia voluto (o potuto?) fermare il tutto pur di fronte alla manifesta inconcludenza  delle accuse mosse.

La seconda e ben più grave ragione consiste nell’aver distratto dal campo delle indagini contro mafia e corruzione in Sicilia un Luogotenente dell’Arma dei Carabinieri che aveva ampiamente dimostrato di sapere come muoversi nell’indagare collusioni e relazioni che alimentano il capitale sociale delle cosche. E c’è da scommettere che questo era l’obiettivo principale.

Potranno farci velo la stima e l’amicizia nei confronti di Paolo Conigliaro, ma è chiaro che quello che è successo riguarda tutti, cittadini, associazioni e istituzioni che hanno a cuore la lotta alle mafie e alla corruzione e non può essere liquidata come una sconfitta personale.

Ancora oggi, all’indomani di un verdetto assurdo quanto penalizzante, ci piace pensare che per quanto doloroso sia il momento, il Luogotenente Paolo Conigliaro saprà far valere le sue ragioni così evidenti e potrà essere restituito a quello che sa fare meglio: colpire gli interessi criminali e mafiosi, rappresentare lo Stato, sempre con gli “alamari cuciti sulla pelle”, per utilizzare la famosa espressione del generale dalla Chiesa.

* fonte liberainformazione.org

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