Passo Sataro – Parte II

I racconti di Nicola Quagliata

Passo Sataro

Seconda parte

Frettolosamente Tano riprese la discesa delle scale, saltando qualche scalino, per scomparire fuori dal portoncino. La scala infatti dava direttamente sul portone.

Tano era un tuttofare tra la sede del partito ed i vari circoli di notabili del paese. I circoli crescevano di anno in anno perché ogni notabile del paese, altezzoso e con cipiglio, ci teneva ad avere un circolo tutto suo, e così si avevano circoli con soli due o tre soci e capitava che un socio fosse iscritto a più circoli per non dispiacere i fondatori. Il compito di tano nei circoli era quello di aprire e chiudere i locali, farli arieggiare dalle finestre, svuotare i posa cenere perché i frequentatori dei circoli erano tutti nicotinomani con le dita ingiallite, fare le pulizie passando uno straccio umido sul pavimento dove pure si attaccava la cenere delle sigarette, puliva i vetri delle finestre, faceva da spola con i due bar vicino la villa comunale, per i caffè e le bevande che venivano richiesti e consumate. Le bevande erano le gazzose al limone, al caffè ed all’arancia che si producevano in paese.

Tano sapeva essere discreto e sapeva quando doveva scomparire.

Ora l’incontro tra l’onorevole e Vito P. richiedeva la massima discrezione e Tano non voleva essere presente all’arrivo di Vito P., neppure quando mi due si salutavano perché poi in paese i curiosi gli avrebbero fatto mille domande, “si sono stretti solo la mano o si sono anche abbracciati?”, “si sono baciati’, “cosa si sono detti salutandosi?”, “l’onorevole gli è andato incontro per salutarlo?”, “Vitu P. si è inchinato per salutare?”. Don Vito in realtà non era poi così rispettato in paese e nel nominarlo tutti lo chiamavano Vitu P. variando il tono della voce al suo nome in senso dispregiativo. Vitu P. e gli avevano anche assegnato il soprannome di sciavulazzu.

A tutte le domande Tano sapeva che non avrebbe resistito dal rispondere e sapeva che ci avrebbe aggiunto tanto di suo, per questo abbandonò velocemente il locale senza vedere l’arrivo di Vitu P..

Senza contare che adesso c’era un morto al cimitero, fuori dalla bara, su un tavolaccio in bella mostra, contro ogni sua volontà e che di certo non gradiva tutti gli sguardi cui era sotto posto, che aspettava di essere tolto dalla vista ed essere tumulato come ogni cristiano. La morte, pensava tano, umilia la persona, e quando un corpo viene esposto alla vergogna non c’è umiliazione più grande. “Già, pensava Tano, la forza e la vitalità innalzano l’uomo e gli danno prestigio e rispetto, la morte è la negazione di quel vigore e di quella vitalità, nella morte si è esposti a qualsiasi manipolazione e trattamento, venuta meno quella forza, annullata con la morte, si cade immediatamente nella condizione della umiliazione, proprio come quel morto al cimitero. In vita era temuto, al suo passaggio li viddani si inchinavano, li fimmini trattenevano il respiro per l’ammirazione che ne avevano, ed ora era esposto alla vergogna, e Vitu P. sinnì prea.”

Tano non aveva nemmeno visto l’onorevole, che se ne stava nella sua stanza con la porta abbaniddata, sapeva che l’onorevole doveva incontrarsi con Vitu P.  e sapeva perfettamente l’oggetto della discussione che avrebbero avuto,  con quel morto al cimitero che stava facendo i vermi e che nessuno si azzardava a toccare e tanto meno seppellire, contro il volere di Vitu P.. e tutti sapevano in paese che proprio gli uomini di Vitu P. avevano raggiunto il fuggitivo per sparargli. Era l’ultimo caduto della guerra di mafia.

Tano pensava che l’onorevole non poteva stare a guardare, ora avrebbe chiesto a Vitu P. di dare sepoltura cristiana a quel morto, e lui non voleva vedere ed essere visto dal capo mafia quando sarebbe arrivato.

Tano temeva la mafia. Temeva i mafiosi e temeva lo sguardo del capo mafia Vitu P. grande proprietario di terre ed amico di senatori e Ministri della repubblica , e riteneva che la mafia era una cosa seria da starci alla larga, e non come facevano tante persone per bene che vantavano amicizia con mafiosi e si sbracciavano per averne nelle feste di battesimo, cresima, matrimoni.

Vito P. arrivò sul pianerottolo della sede del partito a primo piano quando Tano aveva già abbandonato l’edificio ed era scomparso per i vicoli e per le stradine adiacenti.

Vito P. aveva con sé, a tracollo, un porta furetto di vimini che sembrava vuoto, la giacca di velluto marrone scuro sopra la camicia bianca con la cravatta nera del lutto.

Sul pianerottolo avvertì l’odore di fumo provenire dai locali del partito e ne fu contrariato pensando che i suoi vestiti ora si sarebbero impregnati di quel fumo puzzolente di sigarette e lampade a petrolio che accendevano ogni volta che andava via la corrente, e d’inverno capitava spesso. La porta era a metà aperta anche se dentro non ci stava nessuno, non si sentivano voci. Don Vito P. sapeva che nelle sedi dei partiti non solo si fumavano sigarette e tabacchi scadenti come le Alfa, le Nazionali e le Sax ed il trinciato che si arrotolava nelle cartine, ma si fumavano anche sigarette arrotolate col trinciato dei mozziconi spenti e conservati se non addirittura raccolti per strada.

Entrò col suo porta furetto di vimini a tracolla e si diresse nella stanza in fondo al corridoio.

L’onorevole si fece trovare seduto dietro la scrivania e non si alzò neppure quando Vito P. entrato nella stanza gli si diresse incontro per salutarlo.

–       Don Vito P. stai andando a caccia?

Disse l’’onorevole indicando il porta furetto e con un sorrisetto ironico.

–       Onorevole i miei ossequi, a caccia ci sono già andato…

Vito P. rispondeva al sorriso dell’onorevole con un altrettanto sorrisetto sornione.

L’onorevole lo invita a sedersi sulla sedia davanti alla scrivania e mentre VitoP. Si sedeva con tutta la sua statura di quasi due metri, con una mano si toglieva il porta furetto dalla spalla poggiandolo sulla scrivania un po’ di lato. L’onorevole che era piccolo di statura e non arrivava ad un metro e sessanta, dalla sua posizione guardava il suo interlocutore dal basso verso l’alto senza che questo gli creasse alcun fastidio. Aveva decenni di militanza politica ed aveva avuto migliaia di interlocutori e non era certo l’aspetto fisico che poteva influire sul suo umore.

–       Onorevole, mi hai fatto chiamare e sono corso a sentirti… comincia tu perché io sono ospite, e per la verità non saprei che dire-

–       Hai ragione Vito… ma sai pure cosa ci dobbiamo dire. Io dico immediatamente che quest’opera dei pupi deve finire, entro domani il sipario lo voglio trovare chiuso. Finora anche la stampa di opposizione ha taciuto o ha minimizzato come semplici fatti di cronaca nera tutti gli omicidi della zona, ma ora sappi che anche il vescovo mi chiama ripetutamente per dirmi che queste non sono cose da cristiani e che pure lui subisce pressioni per interessarsi su quello che sta succedendo, e teme che questi avvenimenti possano ripercuotersi politicamente su tutta la Sicilia, sugli investimenti che devono arrivare e che potrebbero essere stornati in altre regioni. Noi abbiamo ereditato dalla guerra una situazione sociale disastrosa, che si riflette su tutta l’economia e sulle istituzioni statali e amministrative. Questo disastro può mutarsi in grande opportunità. Dobbiamo avere fiducia nell’avvenire. Io sono abituato a ragionare in termini di concretezza senza mai astrarmi dalla realtà in cui agisco politicamente, senza rinchiudermi nelle elaborazioni dottrinarie e nei meri giochi di esercitazioni intellettuali che steriliscono l’azione politica e la rendono imbelle. L’arretratezza in cui versa la nostra regione richiede un impeto ed un impegno che porti al raggiungimento del progresso generale. Dalla distruzione della guerra possiamo ripartire e superare la secolare arretratezza che col tempo è divenuta sempre più visibile nel confronto del progresso raggiunto dal resto dell’Italia. Analfabetismo, latifondo, e so di stare parlando con un latifondista, mancanza di case per il popolo, mancanza di scuole ed ospedali, di mezzi di trasporto, di alberghi e di acquedotti, mancanza di centrali elettriche e di industrie, assenza di fonti di lavoro e disoccupazione danno un bassissimo tenore di vita con fenomeni di denutrizione e con una mortalità infantile elevatissima.

A questo dobbiamo aggiungere lo stato del territorio con il disordine dei corsi d’acqua che allagano le coltivazioni, il progressivo disboscamento della montagna, , la mancanza di attrezzatura adeguata alle lavorazioni, la coltivazione estensiva della terra con attrezzi rudimentali, si vedono ancora aratri di legno tirati da muli malnutriti ridotti pelle e ossa che a stento si reggono sulle zampe tremolanti. I contadini abitano in casolari sperduti nelle campagne senza avere mai visto una città e che si esprimono a gesti e mugugni dolorosi. Tu con i tuoi feudi e le tue terre lasciate incolte sei parte e causa di questo disastro, ma hai questa grande opportunità di essere protagonista della svolta su cui io mi batto a Roma nei ministeri, e qua mi batto con te. In tanti addossano la causa della arretratezza agli stessi siciliani e fanno come quelli che attribuiscono al malato la sua malattia invece di curarlo.

Eppure insieme a tanti che per saggezza auspicano e propugnano lo sviluppo delle regioni arretrate come la nostra Sicilia, ci stanno pure molti che ci osservano per farci passare come causa della arretratezza economica e sociale. A questi non sfugge nulla e si trovano tanto nei partiti di opposizione quanto nei partiti di governo e nel nostro stesso partito. Noi abbiamo strade da costruire e ponti, da rimboschire montagne, approntare case popolari, scuole ospedali, intere campagne da risanare dalle paludi e dalla malaria.

Per questi lavori sono necessari interventi economici dello stato, e per questo ci vuole l’attenzione del parlamento e delle forze politiche che stanno in parlamento, oltre che nel governo regionale.

Io sono al centro delle attenzioni su tutto questo. Posso accettare che nella mia città, nel mio collegio elettorale si scatenino guerre tra bande, addirittura guerre di mafia? I morti che già sono stati fatti hanno trovato limitata diffusione sui giornali e sulle riviste, quello che sta avvenendo adesso potrebbe scoperchiare l’ossario.

Pure il prefetto mi ha chiamato, ed la chiara la situazione, e sono pronti i provvedimenti per il confino che possono essere commutati in arresti e carcerazione dalla Procura.

Al morto va data sepoltura e va interrotta tutta questa sceneggiata, prima che sia toccato dal sole ed il suo odore si allarghi per il mondo”.

Vito P. ascoltava tutte quelle parole come ad un comizio, senza seguirne del tutto i concetti, coglieva la sintesi del ragionamento che l’onorevole gli recitava come se avesse avuto la corona del rosario tra le mani. La sintesi di tutto quel parlare era che il morto esposto al cimitero doveva scomparire, solo che a differenza di un vivo non lo si poteva far scomparire e basta, lo si doveva seppellire nel cimitero.

Valutò che aveva ottenuto risultati oltre le aspettative. Aveva vinto la guerra di mafia, e sulla guerra di mafia l’onorevole aveva ragione, perché di questo si era trattato, ma andava bene che i giornalisti scrivessero che era scontro tra sbandati della banda Giuliano rimasti ancora in circolazione. Nella vittoria riportava andava segnata l’attenzione che l’onorevole ne aveva avuto e quella del governo, ed avevano chiamato lui, Vito P. per trattare la tumulazione del morto al cimitero e la fine stessa degli omicidi, e questo voleva dire solo una cosa, che lui era e sarebbe rimasto per il futuro unico interlocutore dei partiti governativi e dello stato. Si capiva che lo mandavano al confino, ma anche da quella residenza forzata sarebbe stato l’interlocutore di tutta la provincia.

–       Onorevole, vada per il confino, tu dovresti fare il Presidente della Repubblica, e chissà che un giorno non riusciremo ad eleggerti a quella alta carica dello stato.

Fine

Nicola Quagliata

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