Un omicidio antico, ma i fatti sembrano di oggi

Il delitto del pm trapanese Gian Giacomo Ciaccio Montalto 35 anni dopo. Aveva capito a fondo l’essenza di Cosa nostra

“Ciaccinu arrivau a stazione”. In questa maniera attraversando i corridoi sui quali si aprivano le celle del carcere di Trapani-San Giuliano, il boss di Mazara del Vallo Mariano Agate annunciò che di lì a poco Cosa nostra si sarebbe tolto dai piedi un magistrato scomodo. Nella notte del 25 gennaio 1983, 35 anni addietro, i killer attesero così per uccidere il pm di Trapani Gian Giacomo Ciaccio Montalto mentre a tarda ora faceva ritorno nella sua casa di Valderice. Solo nelle prime ore della giornata un passante si accorse di quel corpo senza vita, riverso dentro l’auto e avvertì i carabinieri. Ciaccio Montalto fu ucciso da numerosi colpi di arma da fuoco, un inferno di fuoco che però non indusse nessuno degli abitanti di quella via, che avevano ben sentito, ad uscire fuori e dare l’allarme. Ma è quel “Ciaccinu arrivau a stazione” che personalmente non finisce mai di ronzare nella mia testa dopo averlo letto su diversi atti giudiziari. E’ lì che sta il centro di questa storia, che è storia di mafia, e come ogni storia di mafia ha avuto bisogno di decenni per arrivare alla verità, la giustizia anche per Ciaccio Montalto, ha incontrato depistaggi e disattenzioni, errori e silenzi. Il dottore Gian Giacomo Ciaccio Montalto, che aveva 41 anni quando fu ucciso e 13 anni di servizio in magistratura, fu il primo pubblico ministero ad essere ucciso dalla mafia. Sino ad allora Cosa nostra aveva ucciso procuratori della Repubblica, Scaglione, Terranova e Costa. Quando fu ammazzato era in procinto di trasferirsi alla Procura di Firenze. La sua storia professionale è fatta di tante indagini che puntavano diritto a colpire l’associazione mafiosa ed i beni dei mafiosi, in un periodo in cui era impossibile contestare il reato di associazione mafiosa, e men che meno pensare al sequestro dei beni, normative che il Parlamento avrebbe varato sul finire del 1982 solo dopo due delitti eccellenti, quello del segretario regionale del Pci siciliano e deputato Pio La Torre e quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quando quelle norme entrarono in vigore, si può ben dire che a Trapani il pm Ciaccio Montalto le aveva già cominciato ad applicare. Parlava di mafia a Palazzo di Giustizia il pm Ciaccio Montalto, in un’atmosfera dove raramente la si sentiva pronunciare anche da altri magistrati, men che meno dagli avvocati. Quel delitto spense ogni tensione investigativa, si aprì una stagione pesante, un magistrato arrestato per corruzione, altri magistrati e giudici indotti alle dimissioni per sfuggire ai provvedimenti disciplinari del Csm, si tenga conto che alcuni dei processi che dovevano aprirsi in quella stagione approderanno nelle aule di giustizia solo ai primi anni ’90. Per la verità ci provò un altro magistrato, appena tre anni dopo il delitto di Ciaccio Montalto, ma sulla sua strada incontrò un attentato simile a quello subito nel 1983 a Palermo dal capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici. Il 2 aprile 1985 il pm Carlo Palermo miracolosamente si salvò dall’attentato di Pizzolungo, l’autobomba esplose ma a far da scudo al magistrato fu un’intera famiglia, una mamma ed i suoi due gemellini, Barbara Rizzo, Salvatore e Giuseppe Asta di appena 6 anni. In questi giorni il Csm ha reso pubblici gli atti riguardanti il magistrato Ciaccio Montalto. La storia di Gian Giacomo Ciaccio Montalto se si vuole è facile da raccontare, basta sfogliare le pagine delle indagini da lui dirette, l’inquinamento del golfo di Cofano, uno dei più belli paesaggi della Sicilia messo a rischio dagli scarichi illegali e anche dal tentativo di costruire qui una raffineria che era sponsorizzata dalle famiglie mafiose locali e al solito da qualche incosciente, e colluso sindaco, i soldi sporchi nelle banche, gli appalti truccati e le speculazioni edilizie, la droga e le raffinerie dell’eroina, i traffici di armi. La regia di tutto questo era di Cosa nostra, ma nel 1983 la mafia a Trapani, ma non solo a Trapani, per i più non esisteva e a Trapani ci sono voluti a momenti quasi 30 anni da quel 1983 perché la si cominciasse a svelare. La storia poi del dott. Gian Giacomo Ciaccio Montalto ha scavalcato come un’onda intere generazioni svanendo senza lasciare traccia. Qualcuno l’ha raccontata in modo elegante e veritiero, ricordando le passioni dell’uomo Ciaccio Montalto e quindi dando un senso non solo giudiziario alle sue indagini rimaste però troppo tempo sullo sfondo, qualcun’altro in modo banale, strumentale, parlando di Ciaccio Montalto e nel contempo scrivendo lettere al ministero dell’Interno per lamentare che a Trapani un poliziotto che aveva alzato il coperchio dell’infame connubio tra mafia, politica e impresa, la mafia se la era inventata. Persone e personaggi che recitano come in un teatro, perché la mafia, ci vengono anche a dire, è oramai sconfitta, ma non è così. E leggendo quel “Ciaccinu arrivau a stazione” oggi Gian Giacomo Ciaccio Montalto non può che essere ricordato parlando delle sue indagini di ieri che rappresentano quella che è diventata la mafia di oggi, sommersa ma infiltrata nei centri vitali di Trapani che è la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro, di 200 uomini di onore tornati liberi di circolare, di decine di “colletti bianchi” sempre pronti a servire i padroni e i mafiosi. Dobbiamo presto sapere conquistare consapevolezza che a Trapani oggi la mafia pretende di restare inviolabile come pretendeva esserlo in quegli anni ’80, perché gli uomini che la comandano che l’aiutano restano gli stessi di allora, i cognomi si ripetono dall’83 ad oggi, dall’83 ad oggi si ripetono anche nomi e cognomi di responsabili morali se non materiali delle commistioni mafiose. A Trapani la mafia continua ad avere dalla sua il silenzio della città, il muro di gomma, l’indifferenza dell’informazione, a Trapani si applaude a chi irride e accusa quel pugno di magistrati e investigatori che non mollano la presa. La mafia ha insegnato bene che non c’è bisogno più di uccidere, basta mascariare, sporcare il lavoro degli onesti, basta insinuare dubbi, sollevare l’esistenza di indagini che non ci sono, dare del calunniatore a chi non lo è e affidare al calunniatore il compito di fare la rivoluzione. Siamo nel 2018, ma sembra di essere ancora nel 1983. Quando la rivoluzione che Ciaccio Montalto portava avanti venne spenta da quel “Ciaccinu arrivau a stazione”. Ciaccio Montalto aveva ben capito l’essenza di Cosa nostra. Aveva scoperto i nomi dei potenti, Riina, Agate, Messina Denaro, indagava sui Rimi di Alcamo, e stava risalento ai collusi nel potere politico e quelli nascosti nelle banche e nella massoneria. A Firenze voleva andare per colpire il cuore di quel sistema che oggi continua a reggere. Aveva intuito che le mafie vivevano tanto di corruzione. Fin dentro il “suo” Tribunale e la “sua” Procura. Basta poi andare a leggere un suo intervento ad un convegno del Csm dove parlò assieme a Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Giuliano Turone, Gherardo Colombo, Giuseppe Di Lello, per fare alcuni nomi. Era il giugno del 1982, Ciaccio Montalto chiamò per nome le mafie e ne svelò il carattere: vivono, venne a dire, attraverso collegamenti interni e raffinate ramificazioni internazionali, possono contare su una rete di complicità nell’ambito politico ed economico, inutile, continuò, parlare di pericolosità se non parliamo di azioni operative. Prima di Falcone, Ciaccio Montalto intuì la necessità di una Procura che si occupasse solo di mafia, parlò di banche dati, indicò il pericolo di allora che è ancora quello di oggi, riempire di fascicoli l’ufficio del magistrato più attento al fenomeno mafioso, per non fargli fare le indagini. “L’efficienza della giustizia – disse – non si può misurare dai numeri delle pratiche evase, trincerandoci dietro l’alibi che il cittadino attende giustizia, consegniamo ingiustizia”. Parafrasando Alessandro Baricco per concludere. C’è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente. Ma lui, Ciaccio Montalto, è uno di quelli che non ci sono più e lo senti. Come se il mondo intero diventasse, da un giorno all’altro, un po’ più pesante, senza che in giro non ci sia più chi ci pensa a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver come Gian Giacomo Ciaccio Montalto la faccia da eroi, ma intanto tengono su la baracca. Sono fatti così. Era fatto così, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Si mettano il cuore in pace coloro i quali definiscono malagiustizia quella giustizia che invece funziona. Tornino nei loro salotti e nelle loro case, qualcuno qualche notte andrà a prenderli, perché non sono molti, ma ci sono ancora per fortuna magistrati e giudici, investigatori che si portano dentro l’intransigenza di Gian Giacomo Ciaccio Montalto.

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Rino Giacalone
Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.