Mafia: per l’accusa appartengono alla cosca di Calatafimi. Tra loro il “colletto bianco” Salvatore Barone
Sono settantotto gli anni di carcere chiesti dal pm della Procura antimafia di Palermo, Pierangelo Padova , per i cinque dei tredici soggetti coinvolti nel dicembre 2020 nel blitz antimafia “Ruina”. Mentre la maggior parte degli indagati ha definito la propria posizione con riti alternativi, quelli comparsi dinanzi al Tribunale di Trapani sono gli indagati che hanno chiesto di essere processati col rito ordinario. Sotto la lente di ingrandimento degli investigatori della Squadra Mobile di Trapani, finì l’area di Calatafimi Segesta, dove la cupola mafiosa aveva trovato terreno fertile. Le richieste di condanna sono state avanzate ieri al Tribunale di Trapani (presidente giudice Daniela Troja): imputati sono Giuseppe Aceste, chiesti venti anni, Giuseppe Fanara e Stefano Leo, per tutti e due richiesta di condanna a diciotto anni, Salvatore Barone, sedici anni e infine Leonardo Urso, sei anni. Un processo che al termine di una lunga istruttoria per la pubblica accusa ha messo punti fermi sul contesto mafioso che è stato disarticolato con il blitz della Polizia di quattro anni addietro. Il pm Padova ha consegnato al Tribunale una corposa memoria di circa 500 pagine, nella quale sono posti in rilievo i comportamenti malavitosi degli imputati. Tra questi c’è Salvatore Barone, un importante “colletto bianco” finito nella bufera giudiziaria, per i suoi rapporti con il riconosciuto capo della famiglia mafiosa di Calatafimi, Nicolò Pidone (condannato in appello a sedici anni). A Trapani è stato dirigente della municipalizzata trasporti, la Sau prima, l’Atm dopo, a Calatafimi divenne presidente della cantina Kaggera. “Pidone ordinava, Barone eseguiva” ha sottolineato il pm nella sua requisitoria. Se per la difesa (che discuterà il 22 ottobre) Barone è vittima della mafia, per il pm “non siamo dinanzi ad un soggetto intimidito…ha semmai messo a disposizione della mafia locale una realtà economica importante per il territorio”. La cantina Kaggera nelle conversazioni intercettate “viene indicata come cosa loro”, grande influenza per l’economia di Calatafimi, “considerato che gli affari pilotati hanno riguardato le anticipazioni ai soci, assunzioni…noi quello che abbiamo potuto fare l’abbiamo fatto”, queste alcune frasi intercettate riferite dal pm in aula.Tra le assunzioni più importanti, tese a favorire la compagine mafiosa, figura quella di Veronica Musso figlia del boss Calogero, ergastolano, già capo della famiglia di Cosa Nostra di Vita, e sposato con una delle figlie del defunto boss Leonardo “Nanai” Crimi. L’accusa si è soffermata anche sul profilo degli altri imputati, come Stefano Leo, per il quale il pm ha richiamato il favoreggiamento alla latitanza di Vito Marino, morto in carcere dove scontava l’ergastolo quale autore della strage della quale nell’agosto 2008 restò vittima a Brescia la famiglia del faccendiere Angelo Cottarelli. “Siamo dinanzi ad una organizzazione tipicamente mafiosa – ha detto il pm Padova – che si è occupata di inquinamento delle attività economiche e della risoluzione di controversie, che sono quelle utili a guadagnare consenso”. “Noi abbiamo avuto il furto voi avete avuto il danno di immagine”: è una delle conversazioni intercettate, che per il pm illumina il quadro probatorio. Da una parte un soggetto che ha subito un furto dall’altro i mafiosi: il primo chiede aiuto ma avverte che così la mafia subisce un danno di immagine. E Pidone incaricò i suoi a recuperare il maltolto. In poche ore i cavalli (che partecipavano ad una manifestazione equestre e di proprietà di un maneggio di Custonaci) vennero ritrovati. Tra gli episodi citati l’incendio della vettura dell’imprenditore Antonino Caprarotta, ordito dallo stesso Nicolò Pidone e realizzato , per il pm, con il concorso di Giuseppe Aceste e Giuseppe Fanara, agente di commercio. Craparotta aveva svelato i retroscena criminali per la gestione dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi – Segesta, e per questo andava punito. Nell’udienza di ieri sono intervenuti i difensori di Fanara, avvocati Enrico Sanseverino e Giuseppe De Luca. ” Le prove della estranietà di Fanara sono dentro al processo, peccato che il pm non le abbia viste” hanno sostenuto i due avvocati nelle loro arringhe. Sanseverino e De Luca hanno offerto al Tribunale le prove che Fanara è in carcere da innocente, indicando e leggendo il contenuto di una serie di intercettazioni. Gli altri avvocati discuteranno il 22 ottobre, mentre il 31 ottobre è attesa la sentenza. Dal processo sono sparite invece le parti civili che si erano costituite, non essendo presenti per la conclusione il Tribunale li ha cancellati dal dibattimento. E’ stata stralciata invece la posizione di Giuseppe Gennaro, per le sue condizioni di salute che ne hanno impedito la partecipazione. Proprio ieri doveva tenersi la sua udienza, per sentire il pentito Nicolò Nicolosi. Gennaro si è presentato in aula (con l’assistenza sanitaria) ma per un malore in aula è stato portato via, per un urgente ricovero ospedaliero. Udienza per lui quindi rinviata.