Processo stragi del 1992: Matteo Messina Denaro non si presenta

Nell’aula bunker del carcere di Malaspina di Caltanissetta è in corso il processo d’appello sulle stragi del 1992, solo uno dei tanti processi in corso, ma l’unico dove verrà giudicato Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e Via d’Amelio. Anche all’udienza tenutasi ieri, 25 maggio, l’imputato più eccellente del dibattimento non si è presentato. L’ex primula rossa, latitante dal 1993 e arrestato solo il 16 gennaio scorso è stato condannato in primo grado all’ergastolo. Come nelle precedenti udienze di questo processo, il super boss “ha latitato”, per l’ennesima volta, l’udienza. Benché il video-collegamento con l’aula bunker del carcere dell’Aquila, dove è detenuto, fosse stato predisposto, la sedia destinata all’imputato è rimasta vuota. Un’assenza che anche il suo legale difensore, Adriana Vella, non ha ignorato dicendo: “Se devo essere sincera, se oggi, il mio assistito, Matteo Messina Denaro, fosse stato presente, lo avrei apprezzato, perché sicuramente chi meglio di lui avrebbe potuto darmi ulteriori spunti e suggerimenti in ordine alla mia discussione”.

Durante il dibattimento è stato però proprio il legale d’ufficio del super boss, Adriana Vella a calamitare tutte le attenzioni, chiedendo per il suo assistito l’assoluzione piena: “Io oggi chiedo l’assoluzione piena per non aver commesso i fatti. Sulla scorta delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – dice il legale Vella a conclusione della sua arringa difensiva – nonché delle sentenze irrevocabili acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale, emerge l’assoluta incertezza dell’effettivo ruolo che Matteo Messina Denaro rivestiva all’interno della compagine mafiosa trapanese”.

Con queste parole il legale del super boss ha sostenuto che non vi sia alcuna prova certa “in merito alla partecipazione dell’imputato in seno alle riunioni in cui fu deliberato il piano stragista”, così come – continua il difensore d’ufficio, riguardo la sentenza di condanna di primo grado – “non vi è certezza del momento in cui l’imputato abbia acquisito consapevolezza che i delitti rientranti in questo piano sarebbero stati caratterizzati da feroce violenza”.

L’intera arringa difensiva si è basata sul fatto che ai tempi delle stragi, l’imputato non avrebbe posseduto le cariche necessarie interne al regolamento mafioso, per poter comandare l’esecuzione di una strage. Per poter ordinare un’azione così importante, avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di capo-mandamento di provincia o sostituto del capo, entrambe posizioni che secondo il legale, l’imputato non ha mai ricoperto se non dopo il periodo stragista del ’92/’93.

Totò Riina, in provincia di Trapani, avrebbe sempre avuto come riferimento in tali ruoli, Francesco Messina Denaro, padre dell’imputato, e come sostituto l’amico intimo e fidato Mariano Agate che successivamente alla malattia di Francesco Messina Denaro ne avrebbe assunto la reggenza. A suffragare questa ipotesi, Vella, nella sua arringa dice: “Non ci sono collaboratori di giustizia, vedi Brusca e altri, che parlano di corregenza di Agate e Messina Denaro figlio, smentendo così la prima sentenza”.

Una linea difensiva molto articolata che è durata più di 2 ore, durante la quale l’avvocato difensore ha portato all’attenzione della Corte presieduta da Maria Carmela Giannazzo, anche la testimonianza del mafioso Geraci secondo cui, nel ’92, lui stesso avrebbe accompagnato l’amico Francesco Messina Denaro al policlinico di Palermo a testimonianza che stava male, ma era ancora autonomo in tutte le sue attività tanto da partecipare a svariate riunioni. “Per questo – ha proseguito l’avvocatessa – non può essere che Messina Denaro figlio sia stato mandante delle stragi sorpassando così il padre e chi stava sopra di lui. Inoltre, come si evince dagli atti processuali, l’unica reggenza che avrebbe potuto assumere Messina Denaro figlio prima delle stragi è solo quella del mandamento di Castelvetrano e non della provincia di Trapani”.

L’avvocatessa Vella ha assunto la difesa dell’ex-latitante solo durante la scorsa udienza del 23 marzo scorso, dopo la clamorosa rinuncia alla difesa da parte della nipote del boss, Lorenza Guttadauro, e anche dopo il singolare rifiuto dell’avvocato Calogero Montante che ha presentato un certificato medico dopo aver ricevuto delle minacce telefoniche. In quell’occasione, la giovane penalista designata al delicato incarico, aveva detto: “Non mi spaventa difendere Matteo Messina Denaro, per me è un imputato come gli altri. Sono tranquilla!”. Una linea che ha coerentemente seguito oggi all’apertura del processo quando si è definita “la massima espressione del diritto di difesa che lo Stato italiano garantisce a tutti, indifferentemente a chi è incensurato o a chi possiede un casellario giudiziario ben nutrito“.

Una apologia del diritto, tradita solo in parte quando ha dovuto riconoscere le oggettive difficoltà riscontrate nel aver dovuto studiare in poco tempo tutti gli atti processuali. “È stato molto difficile per me preparare la difesa perché ho dovuto studiare la sentenza, molti atti processuali e mi sono dovuta confrontare anche con sentenze precedenti”.

Una oggettiva complessità processuale che non le ha impedito di chiedere l’assoluzione piena sulle stragi del super criminale, inserito dal 2010 nella lista dei 10 latitanti più ricercati e pericolosi del mondo.

Al termine dell’udienza la Corte ha deciso che si riunirà il prossimo 19 luglio per la sentenza: nel 31esimo anniversario della strage di Via d’Amelio.

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