Hanno sporcato una divisa!

Caso Conigliaro/Capaci: in appello i giudici restituiscono onore al luogotenente Conigliaro ex comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci. Non doveva nemmeno essere processato

Adesso chi ha straparlato ha scelto la strada del silenzio. I giudici militari della Corte di Appello di Roma, lo scorso 12 ottobre, hanno riformato in maniera netta la decisione con la quale il Tribunale militare di Napoli aveva condannato l’anno scorso a cinque mesi e per diffamazione, l’ex comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci, il luogotenente Paolo Conigliaro. Un processo scaturito dalla querela di altri due colleghi di Conigliaro, i sottufficiali Salvatore Luna e Andrea Misuraca. La Corte di Appello di Roma in una sola udienza, respingendo la decisione dell’accusa, che aveva chiesto la conferma della condanna, ha invece messo nero su bianco che il luogotenente Paolo Conigliaro non solo non ha meritato quella condanna ma che addirittura non doveva nemmeno finire sotto processo. Tecnicamente i giudici hanno evidenziato l’improcedibilità, in altri termini questo processo non doveva nemmeno farsi. Così come aveva già deciso a suo tempo il gip del Tribunale di Palermo che mandò in archivio la querela di Luna e Misuraca. I giudici militari la pensarono in modo diverso. Scopriamo adesso che però hanno sbagliato e pure tanto.E che quella condanna ha sporcato la dignità di un uomo che non meritava di ricevere adosso il fango col quale si è voluto sporcare la divisa da lui indossata. Un processo anomalo sin dalla sua istruttoria, la manovra persecutoria contro Conigliaro si vide sin dall’inizio, per lui, uno dei migliori investigatori dell’Arma, ci fu la rimozione dal comando, la convocazione dinanzi ai suoi superiori per una vergognosa perquisizione che toccò anche gli ambiti familiari, la minaccia del trasferimento ad un ufficio in un sottoscala di uno dei comandi regionali, l’impedimento a poter assumere il comando di un’altra stazione, e poi il tentativo di fargli terra bruciata attorno. E poi quel processo per diffamazione, una querela presentata per il contenuto di una chat privata tra un paio di militari dell’Arma, qualche manina che portò fuori una parte del contenuto, anche il tentativo di falsare, fino a “taroccare” quello che era stato scritto, un dibattimento che per numero di testi e mole perizie, nonché per durata, riuscì a battere i record di processi ben più importanti. Tanto che alla fine si ebbe l’impressione che si trattò di una condanna “telecomandata”, cosa adombratasi anche per il tipo di pronuncia finale: Conigliaro, infatti, fu condannato per un solo capo di accusa e assolto dagli altri cinque. In primo grado sarebbe stato assolto anche dall’unico capo di imputazione contestato se non fosse stato che i giudici applicarono alla diffamazione l’aggravante, attribuendo rilevanza pubblica alla chat di whatsapp finita sotto inchiesta e denominata “Fedeltà”. Una circostanza parecchio anomala, whatsapp non è da considerarsi qualcosa alla pari di un social network, sconosciuta al mondo della giurisprudenza. Senza la contestazione dell’aggravante i giudici militari giammai avrebbero potuto pronunciare la condanna. Ma ciò che emerge oggi è che non solo non doveva esserci alcuna condanna ma non doveva esserci nessun processo. Quello che c’è sempre stato sullo sfondo di questo processo adesso, dopo la decisione di secondo grado, avanza quasi a conquistare il primo piano. Conigliaro, che da tempo è uno degli investigatori assegnati alla Dia di Palermo, ha toccato fili che forse non doveva toccare. Le sue indagini condotte a Capaci, attorno ai rapporti tra politica e malaffare, sulle trame che attraversavano il Consiglio comunale, quello precedente all’attuale, dove sedevano anche i suoi colleghi che lo querelarono, l’interesse investigativo sull’iter di realizzazione di un centro commerciale, procedimento al quale risultarono interessati soggetti parecchio vicini all’ex leader di Confindustria Antonello Montante, il burattinaio di un’antimafia farlocca. Ecco, il nocciolo della questione sta tutto qui. Tanto che il caso Conigliaro è finito sul tavolo della Commissione nazionale antimafia che nei suoi anni di lavoro ha cercato di portare a galla tutto quello che è rimasto nascosto dietro al caso Montante. Il caso Conigliaro è uno dei capitoli di questa indagine condotta dall’Antimafia guidata dal presidente Morra che prima dello scioglimento del Parlamento ha consegnato agli atti parlamentari una sua relazione. Conigliaro da comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci scoprì che mentre Montante finiva arrestato e condannato a Caltanissetta, aveva ancora suoi eredi in giro per la Sicilia a fare affari, a tenere vivo quel cerchio magico fatto di rapporti con alte sfere delle istituzioni, anche del mondo delle forze dell’ordine. Qualcosa dovrebbe saperne anche il neo eletto presidente della Regione Sicilia, l’avvocato Renato Schifani. L’ex presidente del Senato a parte il fatto che oggi è imputato in un nuovo troncone del processo incardinato dinanzi al Tribunale di Caltanissetta contro Montante, dovrebbe ben conoscere l’affare legato ad un centro commerciale da costruirsi a Capaci in un’area dove una volta aveva sede un impianto industriale, l’area cosiddetta Vianini. Lo studio legale Pinelli-Schifani più volte ha messo su carta la difesa degli interessi degli imprenditori che a tutti i costi hanno voluto la modifica della destinazione d’uso dell’area – concessa dal precedente consesso civico e che l’attuale amministrazione nonostante i buoni propositi annunciati non ha mai revocato – e cercato di ottenere il rilascio delle autorizzazioni fino ad ottenere la nomina di un commissario ad acta. Tra i nomi degli imprenditori interessati fino ad un certo punto compariva quello di Massimo Michele Romano, il più intimo degli amici di Antonello Montante, di recente però sparito dall’associazione di imprese costituita. Romano è anche lui adesso sotto processo, nello stesso procedimento che tocca il neo Governatore della Sicilia e uomini di Stato come l’ex generale e capo dei servizi segreti Arturo Esposito. Conigliaro con le sue indagini aveva fatto venire fuori il verminaio di Capaci, ma mai trovò un sostegno adeguato. E non lo trovò nemmeno quando scrisse un voluminoso rapporto che avrebbe dovuto portare allo scioglimento per inquinamento mafioso del Comune di Capaci mentre sindaco era Sebastiano Napoli, il predecessore dell’attuale primo cittadino Pietro Puccio. Su questo rapporto la Commissione nazionale antimafia ha accertato quello che anche noi abbiamo scritto: il dossier non arrivò mai sul tavolo dell’allora prefetto di Palermo Antonella De Miro, finì chiuso nei cassetti del comando provinciale dell’arma dei Carabinieri di Palermo. Circostanza che avrebbe dovuto far saltare dalla sedia decine di persone, ma tutto finì coperto dal clamore del processo militare intanto aperto contro Conigliaro. Una vicenda squallida quanto grave, vertici dell’arma dei Carabinieri a Palermo che hanno calpestato la storia dell’Arma, le sue vittime. Una vicenda che tocca al cuore anche la Procura di Palermo per archiviazioni fin troppo fragili sulle indagini condotte dal luogotenente Paolo Conigliaro. Una storia che sfiora la prefettura di Palermo, i cui vertici avrebbero saputo determinati comportamenti omissivi, ma preferirono il silenzio invece di agire. La proposta di accesso che doveva arrivare in prefettura si fermò e sparì negli uffici del comando provinciale di Palermo. Conigliaro da quel momento cominciò a subire vere e proprie vessazioni, impedito anche nel potere mettersi a rapporto con il comando di Regione e con il comandante generale dell’Arma. Infine destituito dal comando della stazione. La proposta di accesso ispettivo presso il comune di Capaci  redatta da Conigliaro nel novembre 2014 e costantemente aggiornata conteneva le seguenti motivazioni: frequentazioni degli amministratori con mafiosi condannati con sentenza definitiva per il reato di cui all’articolo 416-bis; monopolio dei lavori di movimento terra per le concessioni edili rilasciate dal Comune da parte di società riconducibili a contesti mafiosi; vicende investigative relative ai funzionari comunali; processioni religiose con inchini e soste presso l’abitazione di soggetti riconducibili al contesto mafioso; confraternite religiose cui risultano iscritti mafiosi e funzionari comunali; appalti; vicende inerenti alla polizia municipale e l’ammanco per migliaia di euro di buoni pasto del comune; realizzazione di impianti di distribuzione di carburanti direttamente correlati con l’amministrazione comunale e presunte attività di voto di scambio politico-mafioso”. Il caso area industriale Vianini è tutto dentro questo faldone che nessuna autorità ha mai voluto leggere davvero. Nemmeno la Procura di Palermo: il 5 giugno 2018 la Procura depositò al gip una richiesta di archiviazione, accolta il giorno seguente dal gip, 6 giugno 2018.
Oggi vorremmo che la Procura di Palermo appena affidata alla guida del dott. Maurizio De Lucia riprenda in mano i dossier a firma del luogotenente Paolo Conigliaro. Ma non lo scriviamo per spirito di rivalse o vendette, ma perché riteniamo che dentro queste carte ci sono le prove di quella mafia in grisaglia che continua a fare affari, di politici che di notte fanno come Penelope, disfacendo quello che si fa alla luce del sole, di politici che parlano di antimafia e poi si fanno fotografare con gli amici degli amici, di politici che dicono che la mafia non esiste, quando sanno benissimo che dicono il falso mentre pronunciano queste affermazioni.

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Rino Giacalone
Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.