Julian Assange, 50 città nel mondo si mobilitano per chiedere sua liberazione

Di Paolo Bonacini

Sabato 15 ottobre 2022, in almeno 50 città del mondo, migliaia di persone hanno manifestato, manifestano, manifesteranno, a favore di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks rinchiuso da tre anni in un carcere di massima sicurezza in Inghilterra.
Passato, presente e futuro si fondono, a seconda del fuso orario, nel grido privo di tempo: “Liberate Assange!”. La speranza è che ogni persona per bene, consapevole del valore di concetti come Umanità, Diritto, Giustizia, lo faccia proprio, di fronte alla vergognosa persecuzione del giornalista. Colpevole di avere pubblicato e inviato alle principali testate del mondo atti riservati che documentano i crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. “Colpevole di verità” titola in queste iniziative il movimento no profit “Free Assange”. Ad esempio la verità riguardo l’uccisione di civili in guerra e l’occultamento dei loro cadaveri, o quella relativa all’esistenza di una unità segreta americana il cui mandato era di fermare e uccidere i talebani anche senza processo.
A rischiare la morte ora è Assange: in quel carcere londinese di Belmarsh considerato la “Guantanamo” del Regno Unito, oppure in un carcere degli Stati Uniti dove potrebbe trascorrere i prossimi 175 anni in base all’ipotesi di pena, se verrà estradato.
Le manifestazioni e l’indignazione dei cittadini sono forse l’unica arma (che non spara) capace di impedire questo drammatico epilogo. Si è cominciato sabato scorso a Londra, con una catena umana di migliaia di persone che ha circondato il Parlamento lungo le sponde del Tamigi. Nelle stesse ore a Washington, dall’altra parte dell’Atlantico, una folla altrettanto numerosa ha gridato davanti al Dipartimento di Giustizia che “non c’è democrazia senza libertà di stampa, perché solo un giornalismo senza bavaglio può vigilare sulla condotta del Governo”.
In Italia, dove il bavaglio molte testate e giornalisti se lo mettono da soli, si continua questo sabato con tante iniziative spontanee, una trentina almeno, da Messina a Milano, da Firenze a Bari, da Roma a Bologna, all’insegna dello slogan: “24 ore per Assange”. In contemporanea all’estero si manifesta a Piccadilly Circus e davanti alla prigione a Londra; a Sydney e Melbourne in Australia, paese natale di Julian; a Taipei come in Canada e in Cile; in Spagna, Francia, Belgio e Germania per venire più vicino a noi. Non saranno solo le gradi città a scendere in piazza e nei piccoli paesi quel grido “Assange Libero” risuonerà con uguale forza. Come a Pinerolo in provincia di Torino, dove il sindaco ha concesso al giornalista la cittadinanza onoraria, o come nella frazione di Puianello in provincia di Reggio Emilia, dove verrà proiettato il film documentario “Julian Assange. Il prezzo della verità”. Una produzione francese firmata da Vescovacci, Herman e Moreira che affronta il tema della dicotomia libertà/censura nel giornalismo. A introdurre la serata presso il centro sociale “I Boschi”, a partire dalle 20,15, saranno due giornalisti in prima linea nel lavoro d’inchiesta scomodo. Dove scomodo significa “scomodo per i poteri forti che fanno affari sporchi”. Si tratta di Alberto Nerazzini (Sciuscià, Anno Zero, Report) e Philip Di Salvo (ricercatore presso l’Università di giornalismo della Svizzera italiana). Sono tra i fondatori della associazione culturale DIG (Documentari, Inchieste, Giornalismi) che propone ogni anno a Modena il Festival del giornalismo investigativo, concluso nell’edizione 2022 pochi giorni fa. Sono giornalisti liberi, che sanno quanto è corposo il prezzo da pagare per la difesa di questa libertà.
Julian Assange è una persona in carne e ossa; non è un simbolo, non è una fotografia senza spessore. È piuttosto un esempio virtuoso di come dovrebbe essere la dignità nel lavoro. In qualsiasi lavoro. Ad esempio anche in quello del militare. Ne sa qualcosa Chelsea Elizabeth Manning, accusata di essere la fonte di Assange e di avere trafugato, quando lavorava per l’Intelligence americana durante le operazioni in Iraq, le migliaia di documenti arrivati a WikiLeaks. Nel 2013 è stata condannata a 35 anni di carcere per spionaggio. Dopo sette anni di detenzione in isolamento e in catene, nei quali ha subito trattamenti violenti al limite della tortura, è stata scarcerata grazie all’intervento del presidente uscente Barack Obama. Re-incarcerata nel 2019 per essersi rifiutata di testimoniare sul caso davanti al Grand Jury, è uscita definitivamente di prigione nel 2020 dopo un tentato suicidio.

Essere “colpevoli di verità” grida vendetta due volte: la prima perché raccontare la verità non è una colpa ma un merito. La seconda perché quella “verità” raccontata da WikiLeaks e da Assange/Manning mette sotto accusa altre colpe e altri colpevoli, che invece restano a tutt’oggi impuniti. Vale la pena ricordare cosa dice a tal proposito non un giornalista ma un magistrato. È Enrico Zucca, il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Genova che istruì da pubblico ministero il procedimento per le violenze commesse dai poliziotti durante i giorni infuocati del G8, nel 2001. Sulla storia di Assange, da lui attentamente analizzata con taglio giurisprudenziale, scrive tra l’altro non facendo sconti neppure ad Obama:
“Non può sfuggire che, nel complesso delle informazioni svelate dalle pubblicazioni tramite Wikileaks, sono esposti abusi e violazioni che non solo avrebbero meritato, ma imposto l’incriminazione dei responsabili. Di particolare interesse sono i documenti che riguardano il trattamento dei detenuti a Guantanamo e le operazioni di guerra in Afganistan e Iraq. Dai primi emerge l’insussistenza di qualsiasi seria ragione di detenzione di gran parte dei prigionieri, sottoposti ancor più gratuitamente ai trattamenti costituenti tortura. Dagli altri documenti emerge il compimento di crimini di guerra, uccisioni di civili e torture. Emerge la volontà di nascondere la stessa mole dei danni collaterali, le centinaia di morti civili, non registrando gli incidenti o giustificandoli. In casi come questi sono le convenzioni internazionali che impongono l’accertamento dei fatti e delle responsabilità oltre che la punizione severa dei colpevoli. Eppure, mentre si coltivava l’indagine contro Assange, anche dopo la pubblicazione del rapporto del Senato USA nel dicembre 2014, cioè l’ ammissione ufficiale della tortura, dietro la mistificazione legale delle tecniche di interrogatorio rinforzato sui prigionieri a Guantanamo, ad Abu Grahib, a Falluja, e nei siti segreti gestiti dalla CIA in diverse paesi, la risposta è condensata nella dichiarazione del Presidente Obama sulla necessità di guardare avanti e non indietro: null’altro che un eufemismo per proclamare la scelta di lasciare impuniti i torturatori.
La reazione seguita al trauma degli attentati dell’11 settembre 2001 costringe a cambiare la narrativa sulle democrazie occidentali e in particolare sugli Stati Uniti, nel loro asserito ruolo di leader nella espansione dello stato di diritto. Si è dimostrato che quando lo Stato si sente sotto attacco, non esita a negare i suoi principi fondativi, tornando sempre più a una concezione della democrazia di tipo protoliberale, dove la garanzia dei diritti si restringe ad una cerchia ristretta di cittadini. Si è visto non più, o non solo, il sostegno alle dittature e alla costante violazione di diritti umani degli altri, ma il diretto e generalizzato uso della tortura in prima persona. I documenti filtrati e diffusi da Assange consentono di aprire gli occhi sulla realtà delle guerre, sul loro costo effettivo in termini di uccisioni, sulla straordinaria competenza e facilità con cui si è perpetrato il crimine osceno della tortura che le nazioni avevano ritenuto incompatibile con lo stato di diritto e con l’inviolabile dignità umana sancita nelle Carte Costituzionali e nelle Convenzioni”.
L’amara conclusione è che troppe volte le Carte Costituzionali e le Convenzioni sono ridotte a carta straccia di cui non si tiene conto; sostituite dalla Carta degli Interessi privati, di parte, non scritti e non ratificati, illeciti.
Ma per chi ancora ci crede è bene ricordare, nel giorno in cui si manifesta per Julian Assange, cosa dice l’articolo 2 della legge n.69 del 3 febbraio 1963.
Legge ancora in vigore, se non sbagliamo, almeno in Italia:
“È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti”.
Una manifestazione è stata indetta per domani a Trapani da Amnesty International con inizio alle 16,30 presso la Sala Laurentina.

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