
Anzi, nel suo provvedimento, va ben oltre rispetto a quanto prospettato dal pubblico ministero. L’accusa, infatti, aveva proposto l’archiviazione per la “particolare tenuità del fatto”. Il giudice, invece, ha voluto chiarire che “contrariamente a quanto prospettato dal pubblico ministero” l’archiviazione non debba essere sancita per la tenuità del fatto, ma – più nettamente – perché “sussistono gli elementi del diritto di critica, nella specie del c.d. giornalismo di inchiesta, che è costituzionalmente tutelato in presenza dell’interesse pubblico della notizia e della continenza espositiva”. Di grande forza il riferimento al giornalismo di inchiesta. Soprattutto quando ricorda che caratteristica di quest’ultimo è indicare “motivatamente un sospetto di illeciti”. E in effetti, come correttamente indicato nella memoria presentata dai legali di Borrometi, nel libro del giornalista siciliano “Un morto ogni tanto” si avanza il sospetto di vicinanza dei commercialisti del collegio sindacale della società riconducibile a Giuseppe Gennuso con la famiglia mafiosa di Castelvetrano. “E’ evidente – spiegano i giudici – che si tratta di un sospetto di illeciti, di una denuncia induttiva tipica del giornalismo di inchiesta e che è fondata su fatti veri”. Sospetto di illeciti. Giornalismo di inchiesta. Fatti veri.
La sentenza è chiarissima.
Speriamo la leggano anche coloro che nei mesi scorsi hanno tentato di delegittimare Paolo Borrometi, avanzando insinuazioni sulla serietà del suo lavoro di giornalismo investigativo.
Non ci aspettiamo le scuse. Ci basta che leggano. Questa volta con attenzione.