“Quella mafia che ha vissuto con il consenso”

21 Marzo, “essere testimoni”: l’intervista a La Nazione di Marcello Vola, ex procuratore di Trapani e procuratore generale a Firenze

di Agnese Pini*

Alla fine della nostra intervista mi porge un libro. Si intitola: «Il profumo della libertà». Sopra la copertina verde ci sono i volti stilizzati di Falcone e Borsellino. E io lascio alle mie spalle il profilo austero del palazzo di giustizia fiorentino pensando a che cosa ci resta dell’eredità di quei due magistrati e delle loro vite interrotte. Pare una banalità.

Ma la giustizia oggi si confronta coi Palamara, i libri si fanno e si vendono per parlare degli scandali che travolgono le toghe. Anche le interviste, in verità. Non questa. Il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, da quegli scandali è rimasto in parte suo malgrado travolto: una carriera interrotta.

A maggio 2019, a ridosso dello scoppio del caso Palamara che rimise di fatto in discussione ogni nomina, il Csm lo aveva indicato a maggioranza come candidato per la procura di Roma. Nel merito Viola mi chiede di non entrare: un mese fa ha vinto il ricorso al Tar che riapre i giochi per la Capitale. «Sono ancora troppo coinvolto», dice. Ma poi ammette: «La magistratura non è mai stata in crisi come adesso».

Aspetti, Viola. Facciamo un passo indietro. Perché per parlare dell’oggi occorre ripartire da lì, dal libro verde: la Sicilia, gli inizi della carriera. Fare il magistrato è un lavoro difficile, come tanti. Fare il medico, ad esempio, è un lavoro difficile perché ti mette in contatto con la morte.

«E il lavoro del magistrato ti mette in contatto con il male».

Lei si è occupato di mafia.

«Il male assoluto».

E come ci si convive con il male?

«È complicato, ma se fai il magistrato non puoi sottrarti al dovere di capirlo. Quando ti trovi davanti un collaboratore di giustizia, come tante volte è successo a me, che ti racconta di aver commesso troppi omicidi per ricordarne uno in particolare, ecco: quello è l’abisso. E come si dice: se guardi in fondo all’abisso poi rischi di caderci dentro. Però devi farlo, devi guardare. La corte costituzionale scrive che l’unico vero scopo del processo penale è la ricerca della verità. E la ricerca della verità passa anche attraverso il confronto con il male. Solo una cosa non devi fare: non ti devi mai spersonalizzare, non devi mai perdere il contatto con te stesso, altrimenti finisci col perdere te stesso».

È entrato in servizio nel 1981…

«A Palermo. Sono 40 anni quest’anno».

Che effetto le fa vederli a ritroso?

«Evito di dire che sono volati, anche se è la verità. Ne ho viste tante. A Palermo, dal palazzo di giustizia è passato un pezzo della storia d’Italia. Era una città di una cupezza incredibile, travolta dalla guerra di Cosa Nostra, in cui si contavano i morti a migliaia, e non è una esagerazione. Morivano quelli che non si piegavano. E non erano solo magistrati o poliziotti. Sono morti politici, giornalisti, sindacalisti, ragazzini. Palermo era una città che allora veniva paragonata a Beirut, una città col coprifuoco. Arrivati a una certa ora della sera in giro non si vedeva più nessuno, i locali erano spenti, tenevano le porte chiuse. Davanti a casa mia, davanti alle abitazioni dei magistrati, c’erano i sacchetti di sabbia».

Cosa spinge un uomo o una donna a mettersi in una condizione di vita del genere?

«Iniziai quando nacque il pool antimafia dell’Ufficio istruzione. Noi giovani magistrati respiravamo l’entusiasmo di persone come Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Paolo Borsellino. Di chi aveva capito che per la prima volta si poteva fare qualcosa contro Cosa Nostra. Falcone diceva: si può sempre fare qualcosa. Questa frase un magistrato dovrebbe averla scritta sulla sua sedia».

Non tutta l’opinione pubblica era dalla vostra parte.

«Perché Cosa Nostra seppe insinuarsi nella radice stessa della società. Ho fatto per cinque anni il procuratore a Trapani, città dell’ultimo grande latitante di mafia che è Matteo Messina Denaro. A Palermo in alcune zone il controllo era totale e applicato con il terrore. Matteo Messina Denaro e la mafia trapanese invece avevano il consenso della gente. Se tu controlli l’economia, garantisci proventi ed equa distribuzione del reddito, se tu realizzi occupazione, perché la gente non dovrebbe schierarsi con te, in assenza dello Stato? In una serie di intercettazioni, quando si parlava di Matteo Messina Denaro, abbiamo sentito persone dire: lo dobbiamo adorare, lui è la testa dell’acqua, che in siciliano significa lui è la sorgente».

Quando morirono Falcone e Borsellino cosa pensò?

«Ero travolto. Tutti noi eravamo travolti dal dolore, dallo sconforto. Mi trovavo a casa di Borsellino quando Nino Caponnetto se ne uscì con quella frase famosa: è finito tutto. Ma poi ricordo anche la reazione della gente: una processione ordinatissima, centinaia di migliaia di persone circondarono il palazzo di giustizia, riempirono Palermo di lenzuoli bianchi. Lì la mafia iniziò a perdere».

Mentre parlava di una Palermo col coprifuoco non ho potuto fare a meno di pensare all’oggi, al lockdown, a queste nostre città desertificate dalla pandemia, a Firenze irriconoscibile. Lei stesso ha detto più volte: la mafia prolifera lì dove c’è la difficoltà economica.

«La mafia si sa adattare, sa sfruttare ogni occasione. Spesso lo stato resta dietro, la mafia arriva prima».

Però è difficile a Firenze, in Toscana, parlare di mafia. Si corre il rischio di non essere presi sul serio. C’è una sorta di rimozione, una fortissima resistenza culturale.

«Lo capisco. Ma bisogna sforzarsi di ragionare in modo diverso. Leonardo Sciascia parlava della linea della palma: come la palma troverà nuovi terreni fertili al nord, per l’innalzamento del clima, stessa cosa farà la mafia. La mafia va dove ci sono i soldi. Falcone diceva: segui il denaro. La Toscana ha un’economia viva, e forte. Ma questo la rende appetibile, e quindi ci vogliono gli anticorpi giusti. L’approccio della mafia è molto cambiato, non fa più ricorso alla violenza».

Quindi come si smascherano i mafiosi?

«Serve attenzione da parte di coloro che rischiano di diventare vittime, a cominciare dagli imprenditori. L’imprenditoria toscana è sana e onesta, ma in questo momento è in difficoltà, e la mafia ha più campo libero. C’è denaro da riciclare, e si rischia di creare una sorta di welfare mafioso, se lo Stato non riesce a fornire un sostegno reale. La liquidità di denaro in circolazione rende più semplice fare usura: ecco un altro rischio enorme. L’usura è un reato apparentemente in calo, ma i dati non sono veri perché mancano le denunce. Si crea un legame a volte patologico fra usuraio e usurato. L’usurato, sbagliando, pensa di non avere alternativa. Ecco: il meccanismo per cui un usurato non denuncia l’usuario, non è dissimile da quello per cui una donna vittima di violenze non denuncia il persecutore. E questo cos’è se non mancanza di fiducia nell’istituzione, il timore di non trovare supporto? Ma la civiltà è tale quando c’è uno Stato che tutela la vittima. Bisogna per prima cosa saper ascoltare. Lo ripeto sempre: se non sai ascoltare non sei un buon magistrato. Pericle nel suo discorso agli ateniesi disse: ci hanno insegnato a rispettare le leggi e a non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa».

E perché non sempre ci si riesce?

«Sulle scrivanie abbiamo milioni di carte. Ma dentro quelle carte ci sono persone. Indagati, imputati, vittime. A tutti loro va prestata la stessa identica attenzione, altrimenti abdichiamo alle nostre funzioni».

È questo il male più grande della giustizia, è la burocrazia?

«È la lentezza. Un processo lento è un non processo. Certo, la giustizia deve cambiare, e il magistrato deve cogliere ogni occasione di cambiamento. A me non piace l’immagine del magistrato da prima pagina. Ho sempre trovato il mio modello di ispirazione in quello che disse un grande magistrato fiorentino, che è Gabriele Chelazzi: l’animale simbolo del nostro lavoro non è né l’aquila né il leone, ma il mulo. Nel mulo c’è tutto ciò che deve avere un magistrato: la resistenza, la fatica, l’impegno, e l’ostinazione, intesa come ricerca paziente della verità, che è il fine ultimo del processo».

La mia generazione è cresciuta con il mito del pool antimafia, di magistrati come Falcone e Borsellino. Oggi quell’eredità e quell’esempio sono rimasti travolti dagli scandali. L’ultimo, il caso Palamara, ha sconvolto l’opinione pubblica.

«La magistratura sta attraversando uno dei momenti più bui della sua storia».

Lei è stato suo malgrado colpito dal caso Palamara: la sua nomina alla procura di Roma fu bloccata dopo i colloqui intercettati tra l’ex Pm, i deputati Lotti e Ferri, e altri cinque componenti del Csm.

«Preferisco non parlare di Palamara, sono tuttora troppo coinvolto».

Però non c’è dubbio che sia necessario promuovere un processo di cambiamento: nella magistratura e nelle nomine in magistratura.

«Ecco, il cambiamento: questo ultimo punto è molto importante. Spesso passa il messaggio di una magistratura che non vuole le riforme. Rosario Livatino, un altro grande magistrato morto ammazzato giovanissimo, diceva proprio questo: il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia, tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. La magistratura ha mostrato di avere gli anticorpi, di essere in grado di produrli, e dobbiamo dimostrarlo a maggior ragione in questo grandissimo momento di crisi».

La sensazione che resta nei cittadini è di una categoria travolta dai meccanismi per la spartizione del potere.

«Perciò dobbiamo cambiare le cose. Una volta, io ero giovane, un esponente di un partito d’opposizione in Sicilia mi disse, il giorno dell’approvazione del bilancio regionale: ti pare normale? Mi hanno appena chiamato per chiedermi cosa mi serve, così ci mettiamo d’accordo ed evitiamo problemi dopo. Siamo al punto: se metti d’accordo tutti nella spartizione del potere, dei soldi così come delle poltrone, non scontenti nessuno e l’affare è fatto».

E come se ne esce?

«Col tempo. Noi magistrati dobbiamo dimostrare che abbiamo amore per il lavoro e che l’impegno non viene mai meno. E poi dobbiamo smetterla di litigare: gli uffici giudiziari spesso sono connotati da vene di conflittualità anche incomprensibili. E così finisce che la gente pensa: ecco, la magistratura è quella cosa che sta lì a litigare per una poltrona. E invece la magistratura ha lasciato più morti sul campo di ogni altra istituzione in uno stato democratico, civile, occidentale. Ha pagato il suo tributo quando è stato il tempo, non si è tirata indietro. Oggi però rischiamo di fare una cosa imperdonabile: scoraggiare i ragazzi che iniziano la professione: e invece dobbiamo dare l’esempio, mostrare la buona strada».

Come fecero con lei Falcone e Borsellino.

Viola sorride. «Io ero sempre appresso a Paolo (Borsellino, Ndr). Non pensate che fossero eroi, che fossero miti, erano normali. Erano persone normali che amavano le cose normali: amavano divertirsi, amavano i propri cari, le proprie famiglie, le proprie piccole cose che fanno bella la vita. Come tutti. E che però, al tempo stesso, facevano il loro lavoro con una abnegazione totale. Ecco il magistrato. Ormai rischio di finire fra quelli che dicono, col rimpianto nella voce, ai miei tempi. Lungi da me. Ma io li ho conosciuti, loro. E adesso che ci sono state queste devianze inammissibili nella magistratura, ripenso alla schiena dritta, ai sacrifici, all’umiltà di quei magistrati. Vede? Torna sempre l’importanza di essere umili, nel nostro lavoro. Livatino diceva: quando indossi la toga devi dismettere ogni vanità e ogni superbia».

* fonte La Nazione

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