Palmira

I racconti di Nicola Quagliata

Avvertenza per i lettori di questi racconti su Alqamah.

Il giornalista ha sempre l’obbligo di attenersi alla verità dei fatti, ed i fatti devono essere reali. Nello scrittore la stessa verità bisogna cercarla altrove e può non esserci una verità, ed i fatti non sono quasi mai reali, quasi sempre inventati.

Palmira

La za Palma viveva con la sorella più piccola ed una loro amica di famiglia, Caterina e Giovanna, che chiamavano Giovannina.

Giovannina aveva seguito le due sorelle a vivere in paese, dalle campagne di Bruca, quando vi si erano trasferite a metà degli annisessanta del novecento. Nella via formavano una comunità di femminile che, anche per la loroculturamuntisa ingentiliva tutta la strada.Erano come la presenza di un fiore in un campo di pietre e spine, considerato il carattere duro, dei Petrazzi.

Essere muntisi voleva dire provenire dai comuni dell’agro ericino, e Bruca faceva parte del comune di Erice, dove le parole sono addolcite dalle vocali e le donne sembrano cantare quando parlano. La parlata castellammarese è dura, con egemonia sonora delle consonanti di, ed erre, sempre raddoppiate e spesso insieme come iddru, e le vocali perdono la loro dolcezza come in eu invece che iò .

La za’ Palmira aggiungeva un sorriso di accoglienza ad ogni parola.

In un giorno di festa che la za’ Palma faceva il coscusio ero riuscito ad intrufolarmi nella sua cucina,  lei mi faceva restare purché stessi seduto e fermo come a scuola e come a scuola in silenzio, facendo domande concise e chiare.  La guardavo mentre muoveva le mani nella semola e vedevo il formarsi dei granelli che poi versava nel lemmo verdastro smaltato con una faccia di zingano disegnata sul fondo; anche quando il cuscus era stato depositato e lei aveva ritirato le mani, continuava lentamente, morbidamente a muoversi per conto suo.

        ⁃      Za Pa’… si movi … indicando col dito il cuscus nel lemmo.

        ⁃      E’lufurmentu ancora vivu….

Volevo domandare: ma quannu mori? Ma non lo feci per non apparire sciocco.

La Za Palma era tutta vestita di nero, con le calze nere ed un velo nero sempre sopra la testa in un lutto severo che certamente era dovuto alla perdita dei genitori, – ma la sorella non teneva un lutto cosi severo, mostrava i capelli sempre ben pettinati e anche camicie colorate – ma che tutti sapevano essere dedicato alla perdita del giovane fidanzato, morto ammazzato insieme ad altri due suoi compagni di sventura in un agguato nello scontro tra cosche mafiose del dopoguerra. Col matrimonio Palmira avrebbe potuto togliere il lutto per i genitori ed abbandonare gli abiti neri, le calze nere, scoprire il capo ed i capelli che aveva morbidi e lucenti, ma aveva respinto tutte le proposte di matrimonio che le erano state fatte dopo la morte del primo fidanzato, e nessuno più si faceva avanti un po’ per evitare la delusione della negativa, ed un po’ per rispetto del giovane morto.Le vigne intanto non venivano potate e i terreni a seminato si allagavano, ad averne cura era proprio il Gaspare, il fidanzato che ora non c’era più.Quel lutto stretto, che solo le madri che perdevano i figli nel fiore degli anni portavano,lei lo portò per sempre, perun giovane formalmente estraneo, ma che gli era entrato nel cuore. Palmira sapeva leggere e scrivere e leggeva e scriveva pure in latino e greco, per questo le sue mani erano così bianche e delicate e per questo non alzava mai la voce e parlava sempre come se avesse avuto un bambino addormentato nella culla il cui sonno ed i cui sogni andavano custoditi e protetti, e ragionava sulle cose nel modo proprio di chi sa leggere e scrivere e sa farlo anche in latino e greco.

Palmira aveva frequentato l’Università a Palermo.

Una volta le sentii fare, con parole che le venivano dal petto, alcune considerazioni proprio su quel giovane fidanzato la cui vita era stata strappata lontano da casa, su una riva del Belice, tra i giunchi, mentre chino con la mano portava alla bocca l’acqua da bere. Palmira ancora si chiedeva se aveva fatto in tempo a dissetarsi, a rinfrescare la gola dalla arsura prima di essere colpito dal piombo infuocato dei fucili che gli avevano sparato addosso.

Questa pena la portò per tutta la sua vita, col pensiero che il giovane non avrebbe mai più avuto modo di portare l’acqua alla bocca; per tutta la durata dell’eternità avrebbe tenuto quell’arsura insieme alla privazione di un ultimo sguardo della sua amata. E non aveva avuto a chi chiedere degli ultimi momenti di vita del suo amato zito.I compagni di viaggio pure erano morti. E non avendo a chi chiedere e non avendo da chi farsi raccontare ed ascoltare mille volte gli ultimi preziosi attimi di vita, Palmira si fece accompagnare nei luoghi dove era spirato, e vide che l’acqua del Belice in quel punto era trasparente come cristallo e fresca, con alti canneti attraversati dolcemente dalla corrente, e le tamerici che piegavano i rami a cercare la frescura di quelle acque

Lettera del Prof. Giuseppe Pivano a Palmira.

Il Prof. Pivano della Università di Palermo invia a Palmira il suo ultimo lavoro sulle opere classiche, il libro sui poemi omerici, con una breve lettera di accompagnamento e di saluto.

Ecco il testo integrale di quella lettera. Il libro è stampato da un editore palermitano e quella copia inviata a Palmira è andata perduta, sappiamo che portava un arricchimento di note ad ogni pagina, scritte a mano con inchiostro blu, direttamente dal Prof. per Palmira. Quel testo così ricco di note, considerazioni ed ipotesi di studi ulteriori sul mondo di Omero sarebbe stato di grande interesse per gli studiosi di tutto il mondo ed avrebbe dato a noi più informazioni sulla persona del professore.

Ecco il testo della lettera.

“G.le S.na Palmira, come Le avevo già preannunciato in primavera e poi ancora in estate, – in occasione degli spettacoli serali nel teatro segestano -, questo autunno, ad Ottobre, è stato finito di stampare il lavoro mio sui Poemi Omerici, di cui invio copia – con arricchimenti di note che ho personalmente aggiunto e scritto come avevo promesso – con l’augurio più sincero che possa sfogliarne le pagine all’ombra dorica del tempio, e vederne, come  note musicali, versi, canti e passioni scorrere e rincorrersi tra le colonne e le metope e la ricca vegetazione dei luoghi.

Questa estate, tranne delle brevissime pause di svago, l’ho trascorsa tra le mura del mio studio presso l’Università e la sede dello stabilimento delle arti grafiche,  che raggiungevo a piedi, evitando le ore piu calde e fermandomi a bere “acqua e zammò” presso il chiosco di Piazza Pretoria, alcune volte andavo anche col carrozzino. La mia presenza in tipografia era necessaria per  le ultime correzioni da apportare alle bozze – sempre umide di inchiostro nero e dall’odore forte e pungente –  prima della stampa. Era mio desiderio, come Lei ben sa, vederne al più presto la pubblicazione e la diffusione tra i giovani alunni dei ginnasi.

Queste opere si dimostrano ancora fulgido esempio delle arti di quei popoli antichissimi, per altro nostri autorevoli antenati per il naufragio di Egesta sulle spiagge dorate del Crimiso.

Possano lenire, anche per un istante, il Suo dolore, così simile a quello degli eroi omerici, incolmabile, seppure i due mondi siano così distanti eppure accomunati, nella appartenenza alla stessa natura umana, da quelle passioni che muovevano allora, e tuttora scuotono e determinano, l’agire umano , nonostante il trascorrere del tempo e delle differenti civiltà”

Della lettera che il Prof. Pivano scrisse a Palmira sul finire dell’autunno del 1954 non si può dire che ci sia stato un rinvenimento, un ritrovamento straordinario; non si può perché quella lettera io la detengo da sempre, ne sono stato custode fin dal primo momento in cui l’ho avuta tra le mani, in un tardo pomeriggio di primavera, quando le mattanze arrossavano gli specchi d’acqua sulle coste ed il sangue dei tonni scendeva sui fondali di madrepore e coralli e praterie di poseidonia; era maggio inoltrato, l’aria odorava di nespole mature e tra le vie di Petrazzi le donne si incontravano per intonare canti e preghiere alla madonna, chi era devota alla Madonna delle Scale e chi era devota alla Madonna di fatima, entrambe con tempietto ai piedi della montagna, regno delle antiche divinità femminili.

Così era seduta Palmira con altre donne e teneva al suo fianco una sedia bassa di legno spesso a mo’ di sgabello, impagliata da poco con corda bianca di giummara,  su quella sedia che teneva sempre a fianco, poggiava le sue cose, gli occhiali, i ferri del lavoro a maglia o gli uncinetti, e i libri. Quel pomeriggio un libro con il titolo scritto in rosso ed un disegno sulla copertina di un uomo antico, seduto su una pietra, con una cedra tra le mani poggiata sulle gambe ed una bacchetta al fianco.Quando uno zefiro incauto lo aprì e ne sfogliò le pagine velocemente,una a una, in un momento in cui Palmira era entrata in casa, ne fece volare alcune, trascinandole tra le sedie e sul vattale, in mezzo alla strada, che a quell’ora era asciutto.La mia casa aveva tre scaloni sopra il livello della strada, ed io ero seduto su uno scalone a guardare.

Io tenevo sempre gli occhi su quel che accadeva intorno a Palmira, con l’attenzione e la premura di un innamorato che non sa di amare, e veder portare via dal vento pagine del suo libro mi fece respirare forte e riempire il petto di emozione. Scattai come una molla per recuperare quei fogli e scippare al vento le pagine che lentamente trascinava, ed aveva tolto dal libro di Palmira.

Quando ebbi tra le mani i fogli mi accorsi che non erano pagine di libro stampato, erano fogli scritti a penna con inchiostro blu.Doveva essere una lettera.Senza pensarci la feci sparire sotto la maglietta. La carta dei fogli era fredda di tramontana al contatto con la pelle. Un ragazzino meglio educato avrebbe riportato e consegnato alla legittima proprietaria i fogli, a maggior ragione che non di semplici pagine di un libro si trattava, ma di qualcosa di più personale, di una lettera. Agii diversamente. Sapere che si trattava di qualcosa di personale di Palmira mi spinse maggiormente a tenermela nascosta. Quando fui solo e provai a leggere non compresi granché, non decifravo neppure la calligrafia che era bella a guardarsi. Mi tenni la lettera, non la consegnai, e il posto più sicuro per nasconderla per me era il libro di lettura di scuola, confermando così il destino che a quella lettera era stato assegnato dalla nascita, stare tra le pagine di un libro, perchè così da quel momento io l’ho sempre tenuta, tra le pagine di un libro, e da grande dentro ad un cofanetto di libri, i Quaderni del carcere in sei volumi di A.Gramsci, Edizione Einaudi, che presi in prestito a quindici anni nella biblioteca della locale sezione del partito comunista. Quando presi il cofanetto in prestito il segretario della sezione in persona mi disse: – quando finisci di leggerlo lo riporti.

Di li a breve che finii di leggerlo non avevo più a chi riconsegnarlo. La cosa più giusta ora sarebbe di consegnarlo ad una biblioteca povera.

Da allora non ho avuto modo di restituire il cofanetto, che so che non mi appartiene, preso in prestito e che è diventato custode della lettera del professore a Palmira, per lunghi periodi dimenticata.

Nicola Quagliata

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