Il nostro 11 Settembre

Il ricordo di Falcone sfida ancora la mafia. Ma giustizia e cittadini sono sempre lontani 

di Francesco La Licata*

La strage di Capaci piombò sugli italiani con una violenza tale da lasciarli a lungo sbandati, senza punti di riferimento, con una coscienza civile messa a dura prova dalla frustrazione provocata dall’incolmabile senso di perdita dovuto al danno subito da quei 400 chili di miscela esplosiva scagliati sull’autostrada palermitana. Uno sbigottimento che sarebbe divenuto irreversibile soltanto 57 giorni dopo, con la replica mafiosa di via D’Amelio. Primavera-estate 1992, il nostro 11 settembre.

Con l’agguato al gen. Carlo Alberto dalla Chiesa, massacrato dieci anni prima insieme con la moglie e il poliziotto-tutela, era stata uccisa “la speranza dei siciliani onesti”. La tragica fine di Giovanni Falcone, al culmine di una storia che per lungo tempo aveva lasciato presagire quell’epilogo crudele, faceva ripiombare una intera comunità e le proprie istituzioni nell’inferno di una vita quotidiana scandita, nei tempi e nei modi, da un potere marcio e criminale capace di invadere e condizionare del tutto l’esistenza di una buona parte del paese. Il boato della galleria di Capaci, avvertito per diversi chilometri, metteva a tacere le già flebili speranze poco tempo prima (gennaio 1992) riaccese con la sentenza della Cassazione che mandava al carcere a vita l’intera direzione strategica di Cosa nostra. E Falcone sapeva benissimo che quella vittoria non gli sarebbe stata perdonata. Non dalla mafia dei “viddani” di Provenzano e Riina, ma neppure da quanti, colleghi invidiosi o compromessi, politici depauperati per non aver saputo fermare il maxiprocesso, apparati istituzionali inquinati da sete di carriera e ricerca del benessere a basso prezzo, da quanti, insomma, vedevano in Falcone ormai l’unico impedimento alla ripresa del vecchio e collaudato rito del “quieto vivere”. Fingere, cioè, una opposizione al malaffare per continuare sottobanco a trarne vantaggio: un sistema che, prima di Falcone, aveva funzionato benissimo affidandosi alla pantomima di un finto impegno per la legalità che si scioglieva come neve al sole nei discreti salotti o nei ristoranti alla moda, dove tutto si mescolava perché “il mondo non è tutto bianco o tutto nero, ma esistono varie sfumature di grigio”.

Questo giochetto il giudice istruttore Giovanni Falcone lo aveva smontato mettendo il naso nelle banche e negli sportelli delle finanziarie dove confluivano le risorse di insospettabili professionisti e, soprattutto quei fiumi di denaro “nero” (i proventi della droga e della corruzione) che ponevano la Palermo Anni Ottanta tra le prime dieci città italiane per i consumi e sotto l’ottantesima postazione per i redditi. Misteri dell’economia.

Questo refrain di Falcone che rovinava l’economia è stato sempre il cavallo di battaglia dei suoi denigratori e non soltanto i rozzi boss arricchiti e pacchiani, ma persino le eccellenze in grisaglia, custodi della quiete della buona borghesia, che tra le loro “missioni” avevano quella di “disinnescare” quel giudice che aveva osato persino andare a rovistare nei conti dei padroni di Palermo. Bisognava fermare Falcone. E all’inizio ci tentarono con il “dossieraggio”, con la delegittimazione favorita da un Palazzo di Giustizia pavido, quando non colluso. Proprio dai corridoi frequentati da colleghi invidiosi, sprezzanti dell’abilità del giudice, arrivavano le bordate che avrebbero portato il magistrato all’isolamento totale, fino a sottoporlo all’umiliazione delle bocciature plurime ai posti di responsabilità (la direzione dell’Ufficio istruzione dopo Caponnetto, l’elezione allo stesso Consiglio superiore, la direzione dell’Alto Commissariato e, per finire, la costituenda Procura Nazionale) e al “sinedrio” del Consiglio superiore della magistratura dove fu più volte “maltrattato” da colleghi che si nascondevano dietro l’alibi della “logica delle correnti”. Tutto ciò mentre altri poteri cercavano le “vie brevi”. Racconta il pentito Francesco Di Carlo, da poco ucciso dal coronavirus, di aver ricevuto a metà degli Anni Ottanta (cioè mentre il giudice indagava sui cugini finanziatori della Dc, Ignazio e Nino Salvo, e su Vito Ciancimino) una delegazione dei servizi segreti che andavano a chiedergli “notizie” in qualche modo utili per delegittimare Giovanni Falcone. Evidentemente ancora non si era entrati nella logica dell’omicidio e il potere finanziario e politico pensava di poter disfarsi del giudice in modo non cruento.

Quasi un riflesso condizionato, il raffronto con l’attualità e la constatazione di come il mancato raggiungimento di una buona riforma possa essere messa in relazione con la prematura scomparsa del giudice. Il lavoro di rinnovamento della Giustizia Falcone l’aveva cominciato nell’88/89, collaborando alla realizzazione del nuovo codice di procedura penale. Falcone aveva chiaro che la lotta alla mafia non poteva essere delegata a quattro poliziotti di buona volontà o ai pochi magistrati che si muovevano senza validi strumenti di legge. Anche per questo, al culmine delle vicissitudini professionali e personali, aveva accettato l’incarico di direttore degli affari penali, poltrona che le era stata offerta dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. Persino in quel momento era stato tacciato di alto tradimento, anche da quei signori delle correnti del Csm, accusato di aver abbandonato la prima linea per imboscarsi nelle dorate stanze del potere. Ma lui aveva le idee chiare: “A Palermo ho costruito una stanza, da Roma potrei edificare il palazzo”, si sfogò.

Il palazzo non c’è e la riforma della Giustizia continua ad essere quella chimera promessa e mai voluta da nessuno. Basta leggere lo scambio di messaggi agli atti della vicenda Palamara per capire quanto profondo sia il solco che separa la legge e la giustizia dagli interessi della collettività. Basta seguire i dibattiti sui talk per aver contezza della inadeguatezza istituzionale dei vari responsabili, attori di una commedia ormai ridotta a chiacchiericcio da bar. E viene in mente una frase scritta da Giovanni Falcone in uno dei sui editoriali per La Stampa: “La mafia è un fatto troppo serio per essere trattata in modo poco serio”. Chissà cosa avrebbe scritto oggi davanti alla scarcerazione di circa 400 delinquenti.

*fonte La Stampa

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