“Ho studiato a Palermo ma non avendo trovato lavoro in Sicilia ho deciso di fare i bagagli ed andare via. Sì, faccio parte di quelle migliaia di giovani siciliani che all’età di 23 anni hanno dovuto fare una delle scelte più difficili della propria vita: la scelta tra precariato e assunzione, la scelta tra famiglia e lavoro, la scelta tra l’accontentarsi e il pretendere una giusta gratificazione professionale. Ed io, ho sempre scelto la seconda. E per questo mi sono anche sempre sentita in colpa. Il non essere capace di spiegare alla propria madre ed al proprio padre il motivo per cui si prendono determinate scelte è uno dei dolori più grandi che tutti i giovani come me si porteranno per sempre dietro. Noi siamo andati via, buttati fuori da una terra e da una pubblica amministrazione che non ci ha voluti, non ci trattenuti e non ci vuole neppure vedere tornare a casa”. Queste parole fanno parte di una lettera di una donna siciliana di 28 anni, che lavora come infermiera dal 2013 a Milano, destinatari della missiva il Direttore Generale dell’Asp di Trapani Avv.to Damiani e all’Assessore Regionale alla Salute Avv. Ruggero Razza. Ma la lettera non finisce qua, infatti continua:
“Onestamente io, c’ho anche provato a tornare. Nell’Aprile del 2018 ho ricevuto un telegramma per lavorare con un contratto determinato presso l’ospedale del mio paese d’origine, in provincia di Trapani. Io sapevo che sarebbe stato temporaneo, ma l’entusiasmo per questa piccola speranza che la mia terra mi aveva offerto mi sembrava come una mano tesa che mi stava chiedendo di rientrare. Ed io torno, con la consapevolezza che non sarebbe durata a lungo. E così è stato, perché poco dopo, grazie ad uno dei tanti concorsi a cui ho partecipato, si è presentata ancora una volta quella maledetta scelta: rimanere a casa ed accettare la precarietà come unica opportunità di lavoro o tornare a Milano con un indeterminato in tasca? Lei, cosa consiglierebbe a sua figlia? Rimanere in una terra che non ti dà nessuna garanzia, nessuna certezza, che ti rimbalza da una Asl all’altra, da un ospedale all’altro, che annuncia bandi che non farà mai, che ti fa promesse che non vorrà mantenere? Perché io, ancora una volta, non me la sono sentita, e ho pensato che la mia vita, i sacrifici miei e della mia famiglia meritassero di più.
Ad ottobre 2019 però viene pubblicato il concorso e la mobilità per infermieri nel bacino occidentale della Sicilia ed, ancora una volta, io ci ho sperato. A distanza di tre mesi però del bando nessuna notizia. Al contrario, viene indetta un’altra, ennesima, stabilizzazione dei precari, nonostante l’annuncio di un concorso, di cui però si sono perse le tracce.
Ora, io non so se in quegli uffici voi abbiate o meno alcun interesse a prendere determinate scelte, ma, se mi permette, provo a spiegarle cosa significa un’altra stabilizzazione per noi, migliaia di infermieri siciliani fuori dalla Sicilia e dall’Italia.
Stabilizzare i precari vuol dire mettere in atto un indegno ricatto, perché se non si è disposti ad accettare la precarietà imperante allora si è tagliati fuori, e non si può più tornare.
Significa volerci mettere l’uno contro l’altro, significa spingerci a fare lo sporco lavoro di mettere sul piatto della bilancia bisogni e desideri che hanno eguale importanza: da un lato un lavoro sicuro, dall’altro la rassicurazione ed il diritto di vivere a casa propria. Cosa è più importante? Stabilizzare chi ha deciso di rimanere o agevolare tutti quelli che per un lavoro sicuro hanno dovuto lasciare tutto?
Stabilizzare i precari, ancora una volta, vuol dire rendere quella che dovrebbe essere un’eccezione, la normalità. “Rimani qui, ché tanto tra un po’ stabilizzano tutti”. E noi, il nostro lavoro e la nostra vita dipendono totalmente da chi decide “il quando” e “il come”. Perché tutto passa non attraverso canali pubblici e istituzionalizzati che si muovono sul binario della meritocrazia, quanto attraverso voci di corridoio, i “detti e non detti”, gli amici degli amici, i conoscenti, i “forse”…perché è nell’incertezza, nell’ambiguità e nel precariato che voi ci controllate, ci avete in pugno e che potete fare ciò che volete e muovere le pedine di questo malato gioco della sanità pubblica siciliana a vostro piacimento.
Sono contenta per i miei colleghi che, rimasti in Sicilia, hanno avuto il grande regalo dell’assunzione. Ma ecco, di un regalo si tratta. Quello che in altre parti d’Italia ti spetta di diritto perché te lo sei meritato, in Sicilia te lo regalano, ma solo quando dicono loro. A noi, che abbiamo deciso di non prendere parte a questo gioco, cosa avete da dire? Avete rinunciato a noi? A noi che continuiamo a bussare alla porta di casa, cosa rispondete? Perché delle risposte le dovete dare anche a noi. A tutti noi che ci siamo formati e che contribuiamo ogni giorno a rendere il nostro sistema sanitario uno dei migliori al mondo, a noi che il 31/12/2019 lo abbiamo trascorso da soli, lontani da casa, con un cellulare in mano ed una videochiamata accesa per tentare di ridurre l’insopportabile sensazione di stare perdendo momenti che non torneranno mai più…a noi, cosa state regalando? Niente, il nulla assoluto.
E sa cosa fa più male? L’indifferenza di chi ti ha lasciato andare senza pensarci troppo. La leggerezza con cui si decide di derogare alle regole, non pensando che sulla base di quelle scelte, ci saranno vite che ne pagheranno le conseguenze.
La Sicilia è una regione a Statuto Speciale. Ma più che la specialità, ogni tanto, ci piacerebbe vedere applicata la normalità.