Racconti migranti/8. La storia di Lisa, in fuga per salvate il suo bambino: “Incinta nel deserto della morte”

Dal matrimonio in Nigeria, alla fuga per non perdere il bimbo in grembo. La forza di Lisa per salvare suo figlio dalla maledizione nera e da una morte certa

Niger, May 9, 2016. REUTERS/Joe Penney

“È stato terribile vedere tutti quei morti insieme, quasi tutti giovanissimi, miei coetanei, lasciati morire di fame e stenti nel deserto”. Questo è il racconto di Lisa, giovane nigeriana di 19 anni arrivata in Italia due anni fa. Oggi vive in una comunità famiglia di un paese della provincia trapanese con suo figlio di appena un anno, nato in Italia nei mesi successivi allo sbarco. Lisa, nome di fantasia, è partita da un piccolo paese della Nigeria. È una ragazza sveglia, sorridente e molto allegra. Anche quando rievoca i momenti più difficili del suo lungo viaggio, affrontato con il pancione, sorride e sdrammatizza. In Nigeria ha regolarmente studiato e frequentato una scuola di cucito, dicono che è davvero brava con ago e filo. Ma si è data da fare anche come donna delle pulizie, commessa in un negozio, praticamente non è mai stata con le mani in mano: “Sono cresciuta in una famiglia povera, ma molto numerosa. Eravamo sei fratelli, anche se uno è morto a soli cinque anni. Io sono stata affidata ad una zia che mi ha cresciuto. Non ho mai perso i contatti con la mia famiglia naturale, però comandava mia zia su di me. Oggi mi trovo qui per causa sua.”

Lisa, alternando italiano e inglese, racconta la sua storia d’amore con un ragazzo conosciuto nel suo paesino. Lui era un imbianchino e le aveva rapito il cuore. Tra di loro nasce un forte amore, così decidono di sposarsi. “Un’unione civile, non mi sono sposata con l’abito bianco. – sottolinea mentre sorride – Mi sarebbe piaciuto”. Lei è cristiana e sogna ancora il matrimonio in chiesa. Poco tempo dopo resta incinta. “Mia zia era contraria al matrimonio con questo ragazzo. E si è arrabbiata quando ha saputo che aspettavo un bambino. È stato davvero terribile. Per la prima volta ero veramente felice, invece tutto si è trasformato in un incubo. Mi ha chiesto di abortire e sono stata minacciata.” Più che una richiesta quella della zia è stata pura violenza: abortire o lasciare la Nigeria. In caso contrario sul suo bimbo avrebbe lanciato una “maledizione nera”. Una tradizione ancora molto usata in alcuni Stati africani. Per Lisa, quindi, tutto cambia radicalmente, doveva scegliere se rinunciare al suo bimbo o se rinunciare alla sua vita in Nigeria. “Io sono una ragazza libera, non potevo sottostare a quella legge terribile. Non volevo perdere il mio bambino, così, anche spinta da mio marito, decisi di andare via.” Lisa sceglie la libertà, il rischio di morire entrambi durante il viaggio era concreto. Ma “sempre meglio” che lasciare morire il suo bimbo o “rischiare” una maledizione a vita. “La realtà per me era chiara: avrebbero ucciso mio figlio, non avevo altra scelta.”

Il marito vende tutto e le paga il viaggio, lui sarebbe rimasto per continuare a lavorare e provare a mandarle qualche soldo. Raggiunge il vicino Niger con altri ragazzi, uomini e donne, pronti per iniziare il viaggio nel deserto, destinazione Sebah (Libia). Lisa passa tre giorni nel deserto a bordo di un pick up. “È stata un’esperienza bruttissima. Eravamo tutti stretti e un ragazzo durante il viaggio è pure morto. Stava male, aveva bisogno di cure, vomitava sangue, ma nessuno poteva aiutarlo.” Racconta i particolari del viaggio come se stesse rivivendo tutto. Quella nel deserto probabilmente è stata la parte più difficile per lei. Prima di mettersi sul fuoristrada decide di comprarsi un velo, tipico delle donne arabe, per evitare di essere facilmente riconoscibile e, magari, evitare di essere violentata. “Avevo sentito di storie terribili di donne costretta a prostituirsi. Ho cercato per questo motivo di “nascondermi” utilizzando un velo”. Ogni giorno partono tanti fuoristrada per il deserto e spesso si incrociano lungo il tragitto. “Dovevi stare molto attento sul pick up, se cadevi dall’auto nessuno tornava indietro per prenderti. Cadere nel deserto voleva dire morire di fame e di sete.” Lisa durante i tre giorni di viaggio scorge tra le dune molti corpi. “La maggior parte erano giovanissimi, miei coetanei. Caduti e lasciati morire di fame e di stenti.” All’improvviso davanti il loro percorso si imbattono in un ragazzo magrissimo e malato. Era rimasto per tanti giorni nel deserto. Convincono l’autista a “raccoglierlo” e portarlo a destinazione. A Lisa hanno successivamente raccontato che è molto raro che accada una cosa del genere, solitamente chi cade nel deserto non ha speranze.

Foto ANSA

“A Sebah se non avevi soldi per pagare il viaggio fino a Tripoli venivi picchiato. Le donne prelevate e fatte prostituire. Io avevo con me qualcosa da mangiare, poca acqua e i soldi di mio marito per pagare tutti i vari viaggi e chi “pretendeva soldi”. Sono stata fortunata, molti ragazzi che erano con me non li ho più rivisti”. Viene portata in un centro di detenzione. Chi non ubbidiva veniva picchiato, obbligato a lavorare tutto il giorno. Lisa trascorre cinque giorni tremendi. Poi con un gruppo di ragazzi riesce a scappare rifugiandosi in un piccolo bosco, pieno di alberi e cespugli. Successivamente viene accolta da una signora che sotto pagamento riunisce i migranti in attesa della fuga sul barcone. Lì resta una settimana, in attesa che il mare fosse nelle condizioni migliori per poter garantire il viaggio fino alle coste italiane. “Mentre eravamo in attesa in quella grande casa si è appreso che un barcone partito prima del nostro era affondato, nessuno superstite. Per questo motivo abbiamo atteso oltre una settimana.” Alle due di notte Lisa viene svegliata e condotta nella vicina spiaggia. Con altre 200 persone, tra uomini e donne, sale sul barcone: “Era molto piccolo e si stava strettissimi. Non c’era nemmeno lo spazio per distendere le gambe. Ammassati, schiacciati. Con noi c’erano anche cinque bambini piccoli che piangevano. Tante donne incinte, anche prossime a partorire. Ho avuto tanta paura. Ho pensato di morire e di non vedere nascere mio figlio. Dopo alcune ore dalla partenza il mare iniziò ad agitarsi e il barcone imbarcava sempre più acqua.” Lisa racconta i momenti terribili vissuti sul piccolo barcone. Lei non sapeva nuotare e non aveva nessun salvagente. Nel buio della notte la paura iniziò ad essere sempre più forte. La mattina successiva con il sole alto una Ong si trova davanti un barcone semi affondato. Fortunatamente tutti riescono a salvarsi. Ma la paura è stata tanta, e Lisa, con l’acqua che le arrivava al collo, ha pensato di morire.

Foto ANSA

Dopo il salvataggio in mare Lisa sta male, viene ricoverata subito in ospedale. Ha dei problemi ai polmoni, ma la sua maggiore preoccupazione è per il bambino. Resta ricoverata e attaccata al respiratore per circa un mese. Fortunatamente nessun pericolo per lei e per il bambino che sarebbe nato presto. Nasce infatti qualche mese dopo, in un ospedale di Palermo. Dopo il parto madre e figlio vengono spostati in diversi centri della Sicilia. Fino a quando si ritrovano senza più nulla, senza più un tetto. Scaduto il permesso Lisa ha rischiato di restare in mezzo alla strada con suo figlio di pochi mesi. In uno dei suoi ultimi centri firmava regolarmente ma non riceveva il pocket money. Per lei la vita nel centro diventa sempre più difficile. Inizia così la gara di solidarietà degli altri ospiti del centro: organizzano collette per il cibo per lei e il bambino. Il giudice con un decreto urgente decide successivamente di affidala ad una famiglia, per tutelare il minore. Lei era già maggiorenne, ma il giudice decide di affidali insieme per non separarli. Così, tramite il Forum Antirazzista di Palermo, una famiglia di una città in provincia di Trapani decide di accoglierla in casa. Per mesi ha avuto il calore di una famiglia, il suo bambino è stato accolto come un figlio e finalmente ha avuto la possibilità di chiamare il marito che non sentiva da sei mesi. “Ci hanno accolto benissimo, non smetterò mai di ringraziare la famiglia italiana che ci ha concesso questa opportunità. Rischiavo di finire in mezzo alla strada, ma grazie al loro cuore d’oro oggi sto bene, e anche mio figlio.”

Oggi Lisa ha un permesso per motivi umanitari, è tranquilla, felice, serena, il suo bimbo ha già compiuto un anno. Vive in una comunità protetta in un paesino di provincia, cerca un lavoro e sta preparando il suo CV. “Mi piacerebbe lavorare in un hotel, magari come receptionist”. Ha passato Natale e Capodanno in famiglia e con i suoi nuovi amici, nel frattempo il figlio ha festeggiato il suo primo compleanno in grande stile: una mega festa organizzata dalla famiglia italiana. “Una giornata bellissima che non dimenticherò mai.”

“Legge Salvini? Ho un po’ di paura. Più che per me per mio figlio. Lui non può tornare in Nigeria, non lo accetteranno. Io in caso sono pronta a lasciarlo in affidamento alla famiglia siciliana che ci ha accolti, ma non rischio a portarlo in Nigeria. Il padre non ha mai visto suo figlio, solo in foto e in video. Spero un giorno di potermi ricongiungermi con lui.” Oggi il figlio di Lisa è in salute, lei sta facendo un corso di alfabetizzazione e lentamente sta imparando l’italiano. “Per mio figlio voglio il meglio, voglio garantirgli un futuro qui in Italia.”

La prossima storia sarà pubblicata domenica 24 marzo 2019.

Foto di copertina: Migrants crossing the Sahara desert into Libya ride on the back of a pickup truck outside Agadez (Niger, May 9, 2016). REUTERS/Joe Penney.

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.