Depistaggio Via D’Amelio, Claudio Fava: “Dovere politica andare oltre verità processuale”. Fiammetta Borsellino: “Nostre richieste inascoltate”. FOTO

Il Procuratore Scarpinato: “Deficit istituzionale grave tra Procura Palermo, Caltanissetta e Procura nazionale Antimafia”. L’appello: “Chi sa parli”. FOTO

PALERMO. Anomalia è la parola più frequente della relazione conclusiva della Commissione Regionale Antimafia presieduta dall’On Claudio Fava. A ricordarlo ieri il giornalista di LiveSicilia Salvo Toscano, chiamato a moderare l’incontro organizzato dalla Commissione Regionale Antimafia alla Feltrinelli di Palermo. All’incontro hanno preso parte oltre a Toscano e Fava anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino e Roberto Scarpinato, oggi Procuratore Generale della Corte d’Appello di Palermo. Nella piccola saletta gremita di gente della Feltrinelli, l’On. Fava ha voluto incontrare i cittadini per “spiegare” a tutti cose c’è dentro la relazione.

Il tema dell’incontro, quindi, l’inchiesta sul depistaggio di via D’Amelio che ha portato la Commissione Antimafia a produrre una ricca relazione rivolta a mettere insieme i fatti e riavvolgere il filo delle vicende oscure dietro quello che lo stesso Fava definisce “il più grande e clamoroso depistaggio della storia”.

“È una ferita ancora aperta quella di via D’Amelio e che non dovrebbe fare dormire un Paese democratico come il nostro. – ha affermato il giornalista Salvo Toscano – Troppe domande senza risposte, silenzi, inganni, e menzogne costruite a tavolino che probabilmente potevano essere smascherate prima. Il lavoro fatto dalla Commissione Regionale è davvero molto importante perché ci mette tutti i fatti insieme ed emergono vicende che fanno davvero venire i brividi. ”

A spiegare i dettagli del lavoro d’inchiesta il Presidente della Commissione Claudio Fava: “Perché ci siamo occupati di questa vicenda? Perché rappresenta uno dei depistaggi più clamorosi della storia italiana. Per tanto tempo – ha spiegato Claudio Fava – abbiamo relegato tutto alla magistratura, mal’accertamento della verità giudiziaria non riguarda il nostro lavoro. La politica ha sempre ritenuto di dover intervenire in un momento successivo, cioè dopo una sentenza. La magistratura ci penserà, ma ricordiamoci che ci offre solo un pezzo di questa storia. C’è una responsabilità politica, anche se penalmente non rilevante. Perché la ricostruzione della storia e dei fatti non può essere relegata alla magistratura. Tutti questi pezzi del mosaico ci mostrano tutta la complessità dei fatti.” Il Presidente Fava, che ha portato avanti l’indagine con tutta la Commissione, ha sottolineato quindi i diversi aspetti che portarono al depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il dossier ripercorre i fatti emersi nel corso dei diversi processi che hanno interessato la vicenda, come la parte sul finto pentito Scarantino. Un lavoro di oltre 5 mesi con decine e decine di audizioni, ad essere sentiti molti magistrati che all’epoca portarono avanti le indagini.

“Si doveva solo dire che era una vendetta di mafia. Ed era l’unica verità fornita per anni. Il depistaggio, secondo noi, è servito per coprire tutto il resto. – ha aggiunto Fava – Perché l’attentato non è solo opera della mafia. Ma si è coperto, e si continua a coprire, coloro che erano affiancati alla mafia. C’è una linea che tiene insieme i 57 giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio. L’indagine mette insieme gli elementi che ci permettono di ricostruire la vicenda. Dalle indagini affidate contro la legge al Sisde di Contrada fino alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino.” Fava fa riferimento alle indagini affidata dal Procuratore Tinebra a Bruno Contrada, ovvero ai servizi segreti: “il Sisde non poteva svolgere quelle indagini, e nessuno si è posto il problema. Tra l’altro in quello stesso momento Contrada era indagato a Palermo. Come sia stato possibile che questa contraddizione non sia esplosa?” – ha sottolineato Fava.

Claudio Fava ripercorre il periodo soffermandosi sulle incongruenze e le mancanze delle indagini del’epoca. Dall’abbaglio processuale su quello che si scoprirà in seguito essere un pentito costruito a tavolino, Vincenzo Scarantino. “Bisognava accelerare l’indagine e chiuderla in fretta, con passaggi opachi. Questo depistaggio è frutto di un concorso di azioni, omissioni, reticenze, a vari livelli di responsabilità”. Fava cita anche la mancata audizione di Paolo Borsellino nei giorni che precedono la strage. “Lui voleva essere ascoltato, perché aveva iniziato ad indagare e aveva capito molte cose. Abbiamo pensato quindi che fosse dovere della Commissione non rispondere alle tante domande, ma fare in modo che queste domande arrivassero a destinazione. Il nostro è il tentativo di una foto complessiva di un racconto molto complesso. Noi ad oggi conosciamo solo contorni, ma non chi si mosse accanto per uccidere e depistare.”

Roberto Scarpinato invece ha parlato di una “continuità storica” tra il depistaggio di via D’Amelio e gli altri depistaggi eccellenti, tra questi la strage di piazza Fontana, la strage di Bologna e la strage di Brescia. “Le tecniche di depistaggio usate in altre stragi sono le stesse usate in via D’Amelio, ovvero uso di finti pentiti e collaboratori e soppressione di documenti essenziali. Quando parliamo di questi depistaggi non facciamo riferimento al singolo funzionario, ma dell’entrata in campo di apparati. Un depistaggio si mette in atto per impedire che venga alla luce una verità che deve restare segreta. Qual è questa verità? Che quella di via D’Amelio non è soltanto una strage di mafia. Questo emerge da varie risultanze processuali. È vero che la mafia aveva decretato la fine di Borsellino per il Maxi Processo. Ma è stato accettato che è subentrato qualcuno che non apparteneva a cosa nostra che ha chiesto a Riina di anticipare quella strage, perché Borsellino era diventato pericoloso per interessi che riguardavano soggetti esterni alla mafia. Riina – ha sottolineato Scarpinato – intercettato in carcere confidò a Lorusso che “chiddu arrivò ad accelerare la strage”. Chi è questo qualcuno che può chiedere a Riina di anticipare una strage? Compromettendo tra l’altro gli interessi dell’organizzazione? Anche Spatuzza perla di un soggetto che non gli venne presentato nel garage in cui venne imbottita di tritolo l’auto. Secondo le regole della mafia quando un uomini d’onore commette un reato con un altro uomo d’onore devono essere presentati a vicenda, in caso contrario si tratta di un soggetto esterno. Altro dato ci viene dato dalle intercettazioni tra il collaboratore Santino Di Matteo e la moglie. Quest’ultima, in lacrime, gli implora di non parlare degli infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio. E Di Matteo non ne parlò mai.” Il Procuratore Scarpinato parla anche dell’agenda rossa in cui Borsellino appuntava quello che non era stato messo a verbale. Secondo lui, in quegli anni, c’è stato un “deficit istituzionale” gravissimo tra Procura di Caltanissetta, di Palermo e Procura nazionale Antimafia. “Non era possibile che la Procura di Palermo dicesse una cosa e la Procura di Caltanissetta un’altra sul pentito Scarantino, questo “deficit” ha permesso che non si prendesse una decisione. Il soggetto preposto ad evitare la diaspora si chiamava Procura nazionale Antimafia” – ha sottolineato Scarpinato. Nei vari processo sulla strage di via D’Amelio circa 80 magistrati, tra inquirenti e giudicanti, hanno raggiunto infatti valutazioni e conclusioni divergenti sul processo per la strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Scarpinato sottolinea tutte le contraddizioni che hanno portato ad anni di indagini basate sulle dichiarazioni del finto pentito Scarantino, in realtà “un ventriloquo”. “Ci sono state responsabilità che riguardano anche la magistratura in fase di giudizio tra il primo e il secondo grado. Ancora oggi ci sono delle persone che sanno quello che è successo, – ha concluso il Procuratore Roberto Scarpinato – ma non parlano. Come nel caso dei fratelli Graviano. Loro hanno qualcosa da temere, questo è un fatto inquietante alla luce dei strani omicidi e suicidi di soggetti che sapevano e che stavano per parlare. Ecco perché la continuità storia. La storia del passato ha schiacciato la storia del presente.”

“Alle tante domande esposte non c’è stata mai data una risposta né sul piano processuale né sul piano morale. Ci sono state omissioni di una gravità inaudita. – ha affermato Fiammetta Borsellino – Anche da parte della magistratura. Delusa anche da molte persone che frequentavano la nostra casa, cioè amici di mio padre. Non aver verbalizzato il sopralluogo di Scarantino nel garage in cui venne imbottita l’auto di tritolo è un esempio. Scarantino non ricordava neanche come si apriva quel garage. Nessun magistrato ha ritenuto di dover presenziare a quel sopralluogo e nessuno ha stilato un verbale. Quell’episodio avrebbe già permesso di sollevare una serie di incongruenze importanti nel racconto di Scarantino. Il 19 luglio mi era stato assicurato dal Ministro della Giustizia Bonafede che si sarebbe fatto promotore dell’apertura degli archivi del Sisde, anche se magari nel frattempo è stato fatto sparire tutto, ma rappresenta certamente un segnale. Anche se fino ad oggi nessuna risposta è arrivata. Questo Paese – ha concluso Fiammetta Borsellino – ha la necessità di ricostruire la verità perché queste ferite aperte non ci permetteranno mai di avere un futuro. Molte delle mie richieste oggi sono rimaste inascoltate e questo mi rammarica. Ho una preoccupazione fondata: che non si voglia assolutamente che questa verità emerga.”

Scarpinato inoltre, rispondendo alle domande del pubblico, ha chiarito la sua posizione su alcuni errori commessi dai magistrati: “Oggi abbiamo molte chiavi di lettura per leggere i fatti, ma in quegli anni no. Quindi molti errori certamente sono stati commessi in buona fede.” Sul pm Nino Di Matteo, oggi alla Direzione Investigativa Antimafia, ha espresso stima e amicizia: “è uno dei magistrati più bravi e coraggiosi che io abbia mai conosciuto.”

Infine Claudio Fava ha sottolineato che “abbiamo ricostruito una verità storica, perché non dobbiamo per forza aspettare le sentenze. Non è compito nostro aprire un processo. Noi stiamo provando a restituire alla politica una responsabilità che non si è mai voluta prendere. Perché in 26 anni non c’è mai stata una commissione parlamentare d’inchiesta che abbia cercato le responsabilità storica oltre a quelle processuali. Se continuiamo ad aspettare che siano le sentenze, che a volte non arrivano o sono sbagliate, a dirci cosa è tollerabile e cosa no, resteremo sempre  sudditi in una democrazia dimezzata.”

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.