“In mare si salva, a terra si discute. Il mio primo viaggio di testimonianza sulla Mare Jonio”

Claudio Arestivo, attivista palermitano e membro dell’equipaggio “di terra” e “di mare” della Mare Jonio racconta il suo primo viaggio in mare per salvare vite umane e per testimoniare quello che accade nel mediterraneo: “Quello che manca oggi è un clima di normalità. In mare si salva, a terra si discute”

Foto Facebook Moltivolti

La Mare Jonio, la nave della ong “Mediterranea Saving Humans” sta per ripartire per una nuova missione di monitoraggio nel mare mediterraneo. Abbiamo intervistato un attivista della ong, già membro dell’equipaggio della Mare Jonio, la nave che ha salvato centinaia di persone nei mesi scorsi e oggi, dopo che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento ha disposto il dissequestro lo scorso 2 agosto, tornerà in mare per una nuova missione.

Claudio Arestivo, attivista palermitano e socio fondatore dell’impresa sociale “Moltivolti”, si è imbarcato a marzo sulla Mare Jonio per la prima volta. Durante quella missione non hanno tratto in salvo migranti, le condizioni del mare non erano favorevoli per la navigazione, ma nonostante tutto la missione di monitoraggio è stata portata a termine. Oggi la Mare Jonio si trova al porto di Licata e dopo gli interventi di manutenzione potrà tornare in mare per una nuova missione, partendo dal principio che “in mare si salva e a terra si discute”.

Da quanto fa parte del progetto “Mediterranea”?

“Da sempre. Ho partecipato fin dai primi giorni alla sua “nascita”, circa un anno fa. È stato un lungo percorso, e fin dall’inizio ho creduto in questo progetto che pian piano si è concretizzato grazie al lavoro di molte persone e realtà locali che hanno condiviso questo progetto.”

Cosa l’ha spinta ad imbarcarsi sulla nave di una ong per salvare e assistere persone in mare?

“Prima di tutto il voler testimoniare in prima persona ciò che avviene ogni giorno nel mediterraneo. Per toccare con mano quello che ascoltavo e leggevo ogni giorno, cioè di come il mediterraneo sta diventando un cimitero nel momento in cui si è deciso di svuotarlo sia dalle organizzazioni umanitarie, sia da quelle istituzionali. Sentivo il bisogno di testimoniare, guardare con i miei occhi e partecipare attivamente al salvataggio di vite umane. Oggi una cosa del genere vuol dire tornare in un clima di normalità. Penso che questa polarizzazione tra eroi e anti eroi, tra chi si occupa di salvare vite umane e chi è contrario, sia poco funzionale. Io sono nato e cresciuto con valori molto semplici: una persona che è in difficoltà e ha bisogno di aiuto va aiutata. A maggior ragione se si tratta di una persona che si trova in mare e rischia di annegare, va assolutamente salvata. Non si tratta di un atto eroico, e certamente non va criminalizzato. Si tratta semplicemente di un atto normale. Quello che manca oggi nel nostro Paese è proprio un clima di normalità. La missione di Mediterranea è di monitoraggio e testimonianza di quello che avviene nel mediterraneo, la mia presenza a bordo era proprio per questo motivo: testimoniare e raccontare quello che avviene ogni giorno. Per questo sono convinto che è importante una corretta informazione per risvegliare le coscienze su questo tema.”

Da chi è composto l’equipaggio? E qual è stato il suo ruolo?

Mediterranea è composta da uno staff di professionisti: comandante, ufficiali e marinai, skipper oltre a figure professionali specifiche come medici, mediatori culturali, volontari, avvocati, e poi delle figure di rappresentanza, principalmente di testimonianza come nel mio caso. Tutti però abbiamo fatto un corso di primo soccorso. Quindi una parte di staff tecnico e una parte di figure della società civile.”

È stato il suo primo viaggio in mare?

“Si, è stato il mio primo viaggio in mare. Io non sono abituato alla navigazione, quindi è stato un po’ complicato viste le condizioni del mare. Avere a che fare con onde alte anche tre metri non è sicuramente facile per chi come me non è abituato. Però tutto quello che mi faceva andare avanti era il pensiero che chi partiva dall’altra parte del mediterraneo, dall’Africa, lo faceva in condizioni più precarie delle mie rischiando la propria vita, con una totale assenza di sicurezza. Quindi le mie iniziali paure erano praticamente nulle, ridicole se pensavo a tutte quelle persone, uomini, donne e bambini, che potevano trovarsi in mare in situazioni decisamente peggiori delle mie. È stato proprio questo pensiero costante che mi ha fatto dimenticare delle mie iniziali paure e guardare avanti.”

Questa sua esperienza ha modificato il suo modo di pensare alla vita?

“Si, io tengo particolarmente al diritto di ogni persona e al libero spostamento. Sono il primo di quattro fratelli di una grande famiglia che si è sparpagliata per il mondo alla ricerca di migliori condizioni. Quindi così come ho difeso la scelta e il diritto dei miei fratelli e dei miei cugini, penso che allo stesso modo sia corretto e giusto difendere le scelte di chi viene da più a sud di me. Per me questo è un diritto inalienabile. Noi siciliani siamo un popolo di migranti, sappiamo bene cosa vuol dire andare via per qualcosa di migliore. Quindi coerentemente penso sia giusto rivendicare questo diritto per gli altri, soprattutto se vengono da situazioni peggiori delle nostre, per evitare discriminazioni tra “cittadini di serie A e cittadini di serie B”. Quindi sicuramente mi ha cambiato la prospettiva, anche se il tema degli sbarchi lo seguo da anni e conoscevo bene la realtà. Ma stare in mezzo al mare mi ha aperto ancora di più gli occhi rispetto alla reale volontà e disperazione che spinge le persone a fare quel viaggio difficilissimo, con una percentuale di rischio altissima. Chi decide di affrontare un viaggio del genere vuol dire che non ha altre alternative ed è pronto a sfidare anche la morte. Quell’esperienza in mare mi ha permesso di acquisire consapevolezza sull’enorme forza che queste persone hanno per iniziare un viaggio del genere.”

Lo rifarebbe?

“Assolutamente si. Anche se il mio ruolo è molto più funzionale qui a terra. Volevo fare quest’esperienza e la rifarei anche adesso. Mediterranea si fonda da sempre su un equipaggio cosiddetto “di mare” e uno “di terra”. Entrambi sono importanti per raggiungere i nostri obiettivi. Il mio lavoro, quindi, per adesso è più concentrato qui a terra, ma è stata un’esperienza forte che rifarei senza pensarci due volte.”

Dopo la Mare Jonio la Alex nel luglio scorso ha salvato 59 perone in mare. Anche se Lei non era a bordo, quali sono state le prime parole dei migranti salvati in mare? E In che condizioni erano? Avevano segni di tortura o ustioni?

“Le prime parole sono di gratitudine. Mediterranea, con la Mare Jonio e la Alex, ha salvato più di 150 persone. Quello che mi hanno raccontato i miei compagni di viaggio è il loro senso di dignità e di riconoscenza per averli salvati. Dopo essere scappati dalle torture dei lager libici e dopo aver messo piede su una barca sicura superando quella percentuale altissima di rischio, sicuramente si sentono rincuorati.

Dovrebbero essere i Governi però a garantire assistenza a queste persone, non le ong. Più che i porti dovrebbero essere gli aeroporti aperti a questo tipo di passaggi umanitari”.

Molte di queste persone presentano spesso segni di torture, bruciature e ustioni, sono i segni indelebili dei lager libici…

“Esattamente, le torture che avvengono nei centri di detenzione libici sono ormai chiare e documentate. Sono lager in cui queste persone vengono rinchiuse per mesi, e a volte anni, sotto il ricatto di denaro e di lavori forzati. Io queste storie le conosco bene perché lavoro fianco a fianco con ragazzi che vengono da quelle esperienze. Sono segni indelebili sia sulla pelle che nella testa, difficili da eliminare fin quando la nostra società non li riconoscerà in quanto tali. In questo momento molti rapporti internazionali descrivono quello che accade nei centri di detenzione in Libia, ma ancora oggi vengono ignorati. Quindi i profughi o i rifugiati vengono ancora chiamati clandestini con l’accezione negativa del termine che li priva di ogni diritto. Per quanto riguarda le ustioni si tratta della combinazione tra benzina, acqua marina e sole che divora la pelle lasciando segni indelebili.”

Perché oggi come ieri è importante la missione del progetto Mediterranea?

“È importante perché bisogna contrastare il clima di odio che in qualche modo sta rendendo il mediterraneo sempre più vuoto, omettendo dati e numeri che riguardano vite umane. Noi oggi leggiamo di diminuzioni di morti in mare, ma in realtà non abbiamo idea di cosa avviene perché non ci sono testimoni o sono sempre meno. Se non ci sono testimoni non ci non possiamo sapere cosa accade, quindi c’è bisogno di tenere alta al denuncia e testimoniare quello che succede ogni giorno nel mediterraneo. Penso che se oggi il dibattito sul tema degli sbarchi e dell’accoglienza è così importante lo dobbiamo alle ong che hanno tenuto alta l’attenzione e non si sono arrese alla criminalizzazione che è avvenuta. Una missione come Mediterranea qualora servisse per ogni partenza a salvare anche una sola vita umana, vale la pena di essere sostenuta. Proprio perché in questo momento noi non stiamo soltanto provando a salvare chi arriva dalle coste libiche, ma stiamo cercando di salvare la nostra umanità che sta perdendo la bussola. Per poter dire ai nostri figli e ai nostri nipoti che in quel momento difficile noi c’eravamo e stavamo facendo qualcosa. È un momento in cui il silenzio non è utile, anzi occorre alzare la voce e attivare delle pratiche concrete per contrastare l’odio che si sta diffondendo. Mediterranea è un’azione concreta che si basa su un idea semplice: in mare si salva e a terra si discute”.

La Mare Jonio è pronta a ripartire per una nuova missione?

“Si, a breve la Mare Jonio sarà di nuovo pronta per partire. Penso che tra una quindicina di giorni tornerà in mare per una nuova missione.”

Tornando al clima politico di questi giorni, don Ciotti ha parlato di “emorragia umanitaria” per descrivere il clima italiano sul tema migranti. Lei cosa ne pensa? È d’accordo?

“Assolutamente si. Con don Luigi Ciotti ci siamo confrontati spesso su questi temi. La degenerazione in questo momento tocca dei livelli estremamente alti. Leggere di persone “che brindano” quando un barcone con dei bambini affonda è qualcosa che non avrei mai pensato di osservare. Invece oggi è diventata quotidianità. Però nello stesso tempo c’è anche una parte molto importante di società civile che resiste e che vuole costruire non solo una contro-narrazione, ma anche delle pratiche alternative di contrasto. È una parte di società particolarmente viva e attiva con una grande energia utile per contrastare bene quanto sta avvenendo.”

Cosa dice a chi afferma che la vostra “è la nave dei centri sociali” o a chi continua a definirvi “Taxi del mare”?

“Sono semplificazioni, falsità. Sui “taxi del mare” c’è un’accusa pesante che viene fatta alle ong, assolutamente smentita delle inchieste e dai processi. Ad oggi non c’è una sentenza che dimostri un collegamento diretto tra ong e scafisti. Tutte le sentenze hanno annullato ogni ipotesi. Si tratta semplicemente di un tentativo di screditare chi lavora a difesa e a tutela delle vite umane. Tra l’altro sono anche affermazioni oggetto di contro denuncia, ci sono alcune organizzazioni che hanno inoltrato diverse denunce per diffamazione nei confronti di chi sostiene cose del genere. Purtroppo abbiamo una maggioranza di Governo che ha costruito un proprio potere su questa narrazione. I “taxi del mare” se non sbaglio sono un’invenzione narrativa del Movimento 5 Stelle, che adesso crolla su se stessa perché nulla è stato dimostrato, anzi, è stato dimostrato proprio il contrario.

Anche quella delle “navi dei centri sociali” è una grande semplificazione. Mediterranea è una piattaforma di realtà molto diverse fin dalla sua costituzione: da un centro sociale di Bologna all’attività commerciale “Moltivolti” di Palermo, dalla comunità di San Benedetto di Genova all’Arci, tante realtà diverse che si sono unite per una causa comune. Chiaramente la narrazione è più semplice in quel modo, si è voluto raccontare quello che faceva più effetto. Quelle sono navi di una piattaforma composta da organizzazioni diverse tra di loro che partono dal presupposto che in mare le vite umane si salvano, ma soprattutto che bisogna ritornare a delle origini valoriali in cui la tutela dell’essere umano venga di nuovo messa al primo posto.”

Il decreto Sicurezza bis vi ha in qualche modo “messo i bastoni fra le ruote”? Cosa cambierà adesso?

“Chiaramente da questo decreto noi non siamo facilitati, è stato voluto per limitare al massimo il nostro operato. Ma non ci aspettavamo nulla di diverso. Sicuramente siamo sicuri di una cosa: non è questo che fermerà la nostra azione. Noi siamo partiti in un momento in cui le politiche dello scorso Governo con Minniti Ministro, avevano già pesantemente in qualche modo attaccato le organizzazioni umanitarie. Noi chiaramente non avevamo i soldi per comprare una nave e neanche le competenze per metterla in mare. Abbiamo trovato migliaia di compagni di viaggi che ci hanno sostenuto e ci hanno dato un mano. Lo abbiamo fatto in periodi brutti, lo facciamo oggi in un periodo bruttissimo e lo faremo in qualsiasi momento. Non sarà certamente un provvedimento o una multa a fermarci. Quindi non siamo particolarmente preoccupati.”

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.