“Rispettare legalità, giustizia e verità è il miglior tributo alla sua memoria”

27 anni fa la mafia uccideva Paolo Borsellino

di Vincenzo Musacchio*

“Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”.  A spiegarci l’omicidio di Paolo Borsellino è proprio lui con questa frase scritta la mattina del 19 luglio 1992, alcune ore prima dell’attentato di via D’Amelio. Come ho sempre sostenuto, credo che il modo migliore per ricordare Paolo Borsellino sia impegnarsi quotidianamente per il rispetto della legalità, della giustizia e della verità e nel nome di questi tra valori non scendere mai a compromessi. Cominciamo noi genitori a insegnare ai nostri figli un forte senso della giustizia e una grande intolleranza nei confronti di ogni sorta d’ingiustizia.  Insegniamo loro a lottare per quegli ideali di giustizia, verità e di amore verso il prossimo.

In fondo Paolo Borsellino era una persona onesta che ha compiuto fino il fondo il suo dovere, costi quel che costi, senza scendere a compromessi, tenendo sempre la schiena dritta e guardando in faccia anche la paura, con coraggio e determinazione. Ricordare Paolo Borsellino e le persone della sua scorta vuol dire operare ogni giorno affinché il passato non torni, affinché a partire dalla verità sulla strage di via D’Amelio si costruisca uno Stato e una società che lottino a viso aperto le mafie. Com’era solito dire lui, ai nostri giovani bisogna dire quotidianamente di detestare la mafia e di aspirare al “fresco profumo di libertà senza il puzzo del compromesso”.  Io lo conobbi a Trivento in Molise.

Era la seconda decade di luglio del 1991 ed ero alle prese con l’esame di diritto penale, quando lessi che sarebbe venuto in Molise per parlare di mafia e politica. Non potevo mancare, così domandai la macchina di famiglia a mio padre sperando non gli servisse. Mi avviai da solo con la “mitica” 127 – odorava di terra e a volte al suo interno germogliava persino il grano (mio padre era agricoltore) nella canicola di luglio (forse 38° circa) – per arrivare puntuale a Trivento. Nelle curve ogni tanto la macchina stentava ma arrivai in tempo. L’incontro era all’aperto e l’aria era fresca, lui era già arrivato ed era seduto a un tavolo tutto bianco con accanto il suo pacchetto di MS e con la sigaretta accesa in bocca. Pochi i giovani presenti, cosa che lui evidenziò, poi cominciò subito a parlare di legalità e di rapporti tra mafia e politica.

La sua cadenza era lenta ma efficace e piena di spunti di riflessione. Ero felicissimo perché mi stava facendo scoprire cose su cui ogni italiano avrebbe dovuto riflettere. Subito fece un’affermazione che io condivido pienamente e il succo era questo: argomentò come il rapporto tra il politico e il mafioso era spesso falso e si espresse come avrebbe fatto di lì a poco anche attraverso i media: “perché si dice quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non l’ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto”. Per lui questo non era un assioma, anzi era il contrario.

Affermò che il ruolo della magistratura era specifico mentre la politica aveva maggiori poteri per espellere al suo interno i collusi e i contigui con la mafia. I politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni pubbliche dovrebbero agire con energia e trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che seppur non costituissero reato rendevano, di fatto, il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Queste esigenze non sono state mai realizzate perché ci si è nascosti dietro lo schermo della pronuncia giudiziale: “Tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto”. Per Borsellino questo discorso non reggeva in una democrazia, dove i partiti politici avrebbero dovuto e potuto fare pulizia profonda al loro interno. Chiuse il suo intervento, bersagliato da tantissime domande, con la frase poi divenuta famosa: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Le domande erano assolutamente libere e non concordate così anch’io feci la mia: “dottor Borsellino lei teme per la sua vita?”. La sua risposta seguita quasi da un ghigno fu la seguente: “Si. Temo per la mia vita e soprattutto per quella delle persone a me vicine, dai miei familiari agli uomini della mia scorta.  So che la mafia vuole la mia morte come quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità delle istituzioni colluse e corrotte”. Vi fu un lungo silenzio, la mia fu l’ultima domanda. Mi alzai e mi diressi verso di lui come tutti i presenti, gli strinsi la mano, ricordo che la sua presa era molto forte, lui mi sorrise poi accese una nuova sigaretta e si diresse verso l’auto di Stato che lo stava aspettando. Mi rimase impresso che si fermò per stringere la mano a tutti, nessuno escluso. Notai anche che fumò durante tutto il convegno a volte accendendo la sigaretta nuova con quella appena finita. Fu una giornata memorabile che ancora oggi resta stampata nella mia mente e che mi guida e m’induce a riflettere ogni giorno soprattutto sugli attuali rapporti tra mafie e politica. È un ricordo talmente intimo e personale che ogni volta ho difficoltà a condividerlo. Le idee di Borsellino di allora sono ancora attualissime oggi, spetta a noi far si che non si spengano mai.

*Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise – articolo 21.org

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