Racconti migranti/5. La storia di Samir, in Italia con il fratello disabile: “Meglio morire in mare che in Libia”

Dall’inferno libico all’Italia con il fratello in sedia a rotelle: Il dolore, il coraggio e l’amore per la vita

foto Ansa

“Lui è vivo per miracolo, mio cugino invece è morto in quel terribile agguato”. Inizia così la terribile storia di Samir, nome di fantasia, libico di 33 anni in Italia da un anno e tre mesi. Ha affrontato il viaggio insieme al fratello disabile Mohamed, nome di fantasia, 27 anni, costretto in sedia a rotelle dal 2016 a causa di un brutale agguato a scopo di rapina nei pressi di Tripoli. Mohamed è vivo per miracolo. La loro storia è drammatica, piena di momenti difficili. Ma è soprattutto una testimonianza d’amore, un atto di coraggio per il fratello gravemente malato. È la storia di chi non si è arreso e di chi resta con forza aggrappato alla vita.

Samir e Mohamed vivevano a Tripoli, la capitale della Libia. Una città da anni al centro di conflitti e attentati. L’ultimo in ordine di tempo, rivendicato dall’Isis, il giorno di natale contro la sede del ministero degli Esteri. “Era così anche prima della morte di Gheddafi, ma oggi è ancora più difficile. Banditi, mafiosi, criminali, la vita è praticamente impossibile. Si muore ogni giorno” – racconta. La loro è una famiglia umile, ma molto numerosa. Dieci figli in tutto, cinque maschi e cinque femmine. Il padre lavora in campagna e con tanti sacrifici è riuscito a crescere e far studiare i figli. Samir ha lavorato inizialmente come vigilante, poi, una volta perso il lavoro, si è arrangiato con piccoli lavoretti saltuari. Mohamed invece era un’infermiere, ma anche lui dopo aver perso il lavoro si occupò per un po’ di tempo della vendita di latte, formaggi e ricotta. “In Libia non si riesce a lavorare, è davvero un inferno. La nostra casa qualche anno fa è stata bombardata durante un attacco. Siamo dovuti scappare via e vivere per qualche tempo da parenti, una volta rientrati a casa l’abbiamo trovata semi distrutta e saccheggiata. – spiega Samir mostrando una foto della casa ridotta in macerie – Lentamente siamo riusciti a ricostruirla. Ma non è stato facile.”

Descrive con dovizia di particolari le terribili condizioni di paura con cui sono costretti a convivere giornalmente. Una situazione di oppressione e di terrore costante. “Si uccide per poco, i banditi o i terroristi non hanno scrupoli e arrivano ovunque. Gli attentati sono molto frequenti. Una volta mentre andavo a gettare la spazzatura fuori dal ristorante in cui lavoravo vidi tra i rifiuti quattro persone morte. Erano ricoperti di sangue, completamente nudi e pieni di tagli e ferite”. Torturati. Buttati come rifiuti. Scene che Samir non dimenticherà mai.

foto Ansa

Mohamed insieme al cugino trova lavoro in un grande negozio, faceva il cassiere e si era conquistata la fiducia del titolare. Alla fine del mese, custodiva i soldi dell’incasso e degli stipendi in attesa dell’arrivo del “capo” che viveva fuori città. “Dei banditi li hanno attesi fuori dal negozio per rubargli l’incasso. Sapevano i loro movimenti, il loro percorso fino a casa. Così una volta in macchina dopo alcuni chilometri si sono trovati un’auto con i finestrini oscurati a fianco. Dall’auto sono stati minacciati da alcuni uomini con il viso coperto e armati di fucile. Mio fratello, che si trovava alla guida, ha cercato di seminarli, di arrivare a casa il prima possibile. All’improvviso una scarica di proiettili arresta la loro corsa…”

L’auto di Mohamed e il cugino viene raggiunta da una scarica di mitra. L’auto su cui viaggiavano finisce fuori strada e si ribalta. Erano a pochi chilometri da casa. I banditi portarono via l’incasso e lasciarono i due ragazzi nell’auto, convinti che entrambi fossero morti. Per il cugino non c’è stato nulla da fare, morto sul colpo. Mohamed invece ha battuto violentemente la testa ed è stato colpito alle gambe. Non è stato facile tirarlo fuori dall’auto ridotta a un cumulo di lamiere. Era vivo, ma gravissimo.

“Temevamo potesse accadere, i banditi in Libia spesso sorvegliano i posti in cui girano parecchi soldi. Lo hanno atteso e una volta visto entrare in macchina con lo zaino lo hanno attaccato. Era un’auto scura, senza targa, vetri oscurati e gli uomini avevano il viso coperto. Impossibile riconoscerli. Il tutto è avvenuto poco prima del tramonto” – racconta Samir mentre mostra le foto di quei momenti; il racconto dell’accaduto il fratello riuscirà a fornirlo solo molto tempo dopo.

Viene così ricoverato in un ospedale in Tunisia, in Libia non era possibile, sarebbe morto presto. Gli ospedali non erano attrezzati per quel tipo di cure, e Samir voleva mandarlo in un Ospedale specializzato. Mohamed respira e si alimenta solo attraverso le macchine, ha fratture in tutto il corpo, un grave trauma cerebrale e non riesce ad aprire l’occhio sinistro. Mezzo corpo non risponde più. Non parla. Il coma dura circa 6 mesi. Mesi duri, ma Samir non lo lascia mai solo. Abbandona tutto e si trasferisce in ospedale con lui per assisterlo 24 ore su 24. La sua vita diventa tutt’una con quella del fratello. I due sono molto legati. Il padre per pagare le cure vende le terre e la macchina. Ma i soldi non bastano mai. Ha bisogno di cure lunghe e molto costose. Anche l’altro fratello maggiore, che di mestiere fa il meccanico, contribuisce come può. Samir vende la sua auto. Ma i soldi finiscono presto. Mohamed nel frattempo inizia a svegliarsi, lentamente sembra ricominciare a ricordare, a parlare e riconoscere i volti. Dopo un anno dal terribile agguato ritornano in Libia, anche se il padre voleva che restassero entrambi in Tunisia. “Voleva vendere anche la sua casa per farci rimanere là, ma non ho accettato. Mio fratello aveva bisogno di cure e di attenzioni, ma non potevo accettare di lasciare i miei genitori in mezzo alla strada. A casa per mio fratello è stato terribile. Si svegliava di notte urlando ogni volta sentiva degli spari, soffriva di attacchi di panico ed eravamo costretti a portarlo spesso in ospedale. Non era una situazione sostenibile. Così decisi di andare via.”

Tripoli, foto ANSA EPA/STR

Mohamed era psicologicamente a pezzi. Non dormiva, non mangiava, non si era ripreso del tutto. Non era autonomo, non era lui. Un ragazzo alto, nel pieno della sua carriera e della sua vita. Un ragazzo, come lo descrive Samir, pieno di vita, allegro, scherzoso, ambizioso. Così una mattina prende in braccio suo fratello e insieme ad un altro ragazzo si dirige verso una città vicina, verso il porto per cercare un imbarco di fortuna per l’Europa. “Ho salutato i miei genitori, ho detto loro che era meglio morire in mare durante il viaggio che in Libia in quelle condizioni. Non avevo scelta, o andavo via con lui, o morivamo entrambi.” Carica il fratello, la sedia a rotelle e parte da Tripoli. Arrivano a Sabrata, la città da cui partono la maggioranza dei migranti per raggiungere l’Europa. L’amico li porta da un conoscente proprietario di molte attività commerciali che organizzava dei viaggi in mare. Ma non voleva imbarcarli. “Non poteva imbarcare noi libici e, inoltre, noi non avevamo soldi. Abbiamo provato più volte, fino quando gli abbiamo raccontato la storia di mio fratello. Una volta visto mio fratello in quelle condizioni non ci ha pensato due volte. Ci chiamò circa una settimana dopo e ci fece salire su una piccolissima imbarcazione, di circa 6 metri. Eravamo soltanto io, mio fratello e un altro ragazzo. Non ci chiese nulla in cambio.”

Samir si ritrova a guidare una piccola imbarcazione, direzione Lampedusa. Sapeva che non sarebbe stato un viaggio facile, ma non aveva scelta. Vivere o morire. Lasciare il fratello a morte certa in Libia o provare a vivere in Europa, anche al costo di finire in fondo al mare. “Avevamo sentito di storie terribili, di persone morte in mare e mai più ritrovate. Dovevo correre il rischio, dovevo farlo per lui. Lui è un ragazzo forte, non si sarebbe arreso e io non potevo fare altrimenti.”

Lampedusa, foto Wikipedia

Superata l’iniziale paura, partono un giovedì di buon mattino e affrontano il mare per due giorni e mezzo. Il fratello sdraiato, coperto dal freddo la sera e dal sole di giorno. La piccola barca affronta il mare senza essere intercettata, scambiata probabilmente per un peschereccio. “Non siamo stati fermati da nessuno, così non appena all’orizzonte è apparsa l’isola di Lampedusa abbiamo raggiunto il porto. Appena fuori dal porto una grossa barca di turisti ci ha intercettato e pensando che fossimo dei pescatori, ma una volta mostrato mio fratello in quelle condizioni hanno segnalato la nostra presenza alle autorità.” Era sabato mattina, e Samir, l’amico, il fratello e la carrozzina arrivano al porto, ad accoglierli la polizia italiana. “A Lampedusa siamo rimasti per circa dieci giorni.” Successivamente i due fratelli vengono trasferiti in alcuni centri di accoglienza dell’agrigentino, ma non avevano la possibilità di accogliere Mohamed in modo adeguato. “Nella prima struttura eravamo oltre 600, per mio fratello era impossibile riceve le necessarie cure. Una sera siamo stati costretti a chiamare l’ambulanza perché stava male. Così poi siamo stati trasferiti in un altro centro per lui più confortevole.”

Samir non ha studiato molto, ma da quando è in Italia ha cercato di imparare l’Italiano per poter spiegare i bisogni del fratello. Mohamed non parla l’Italiano, saluta con la mano sorridente mentre parla di calcio. Lo incontriamo in una fredda mattina di dicembre. Sul corpo ancora i segni dell’incidente, accanto al letto una stufetta e l’inseparabile sedia a rotelle. Saluta sorridente, con la felpa dell’Inter, la sua squadra del cuore. Suo fratello Samir non si allontana mai, dorme vicino a lui, lo accudisce 24 ore al giorno. “Oggi sta molto meglio grazie a Dio. Tutto sommato il viaggio è andato bene, oggi siamo ospiti di un centro che ci permette di avere un medico per le visite e adesso anche la fisioterapia. Da quando siamo in Italia ha ricominciato a sorridere, a parlare, ad usare il cellulare per le video chiamate con i miei genitori in Libia.” Quando parla di suo fratello gli si illuminano gli occhi, il suo è veramente un legame molto forte. Un amore profondo e indissolubile. Ha sacrificato la sua vita, rischiando anche di annegare per salvarlo da una morte certa. Oggi sorride, ma ne ha passate davvero tante. “Certo, è stato un gesto coraggioso e incosciente, ma lo rifarei. Mio fratello l’avrebbe fatto per me.”

foto Ansa

“Tornare in Libia per ora è impossibile, le condizioni di mio fratello non lo permettono. Adesso, con molta calma, inizia a stare in piedi anche se con l’assistenza di una persona a fianco. Sta rispondendo bene alle cure a alla fisioterapia. Facciamo trenta minuti di movimento al mattino e trenta alla sera. Per il momento la cosa più importante è che stia bene. Magari un giorno, quando si sarà ripreso definitivamente torneremo dalla nostra famiglia.”

Mohamed è stato sottoposto a diversi interventi: alla testa, al torace e alle gambe che gli hanno lasciato segni indelebili. Dal ricovero in Tunisia i progressi sono stati davvero tanti. Adesso muove il lato sinistro del corpo, ha riaperto l’occhio, sorride, parla e ha ripreso a dormire senza incubi. Oggi sono ospiti di un centro di accoglienza del trapanese ma tra qualche mese andranno via verso un altro ancora più attrezzato. Hanno i documenti e il permesso di soggiorno per cinque anni. “In Libia non avrebbe mai fatto questi progressi. Siamo felici di essere in Italia e di aver trovato questa accoglienza e assistenza. Qui molte persone ci vogliono bene. La vita è una continua prova, nel bene o nel male, bisogna sempre andare avanti e non fermarsi. Questa è la vita, e questa è la nostra storia”. Samir e Mohamed oggi sono sereni. La vita sicuramente non sarà più la stessa per nessuno dei due, ma insieme, con coraggio, affronteranno le sfide future guardando sempre oltre quell’orizzonte infinito che scrutavano dalla piccola barca mentre cercavano la terra ferma. Le onde non li hanno trascinati in fondo e la paura del mare oggi è soltanto un brutto ricordo.

La prossima storia sarà pubblicata domenica 10 febbraio 2019.

Foto di copertina ANSA.

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.