Racconti migranti/4. La storia di Ibrahim: “In Italia perché non volevo combattere”

Dal Mali alla Libia fino all’Italia per fuggire a un destino già scritto: diventare un bambino soldato

©UNICEF/UN037267

ALCAMO. Parla bene l’italiano Ibrahim, nome di fantasia, è qui dal luglio del 2016. Oggi vive in uno Sprar di Castellammare del Golfo, ma spesso si reca nella vicina Alcamo per frequentare la scuola. Ha 19 anni ed è del Mali. Nel suo Paese ha studiato fino a quando non è stato costretto a fuggire. Ha detto “no” all’arroganza, “no” alla guerra.

“In Mali c’era la guerra e mio zio mi voleva mandare a combattere. Non volevo diventare uno jihadista, non mi piacciono le armi e non avevo nessuna intenzione di andare in guerra. Avevo 17 anni e del conflitto non mi importava niente, volevo solo studiare. Così un giorno sono andato via, lasciando i miei fratelli più piccoli in Mali”.

La guerra in Mali è arrivata nel 2012. Il conflitto, che ha portato morte e distruzione in tutto il Paese, può ritenersi ancora in corso nonostante l’intervento nel gennaio del 2013 della forza multinazionale guidata dalla Francia su mandato dell’Onu. Purtroppo in tutto il Paese sono diventati una consuetudine i cosiddetti “bambini soldato”. Ancora piccolissimi vengono assoldati dalle truppe filo governative o dai cosiddetti “gruppi ribelli”. Armati e mandati in guerra. Minorenni, bambini, costretti a sparare, ad uccidere, lontani delle proprie famiglie che non rivedranno più. Ibrahim è fuggito proprio da questo, non accettava di finire nelle mani dei guerriglieri.

Inizialmente raggiunge la capitale del Mali, Bamako, in cui per sei mesi lavora in un allevamento di galline, dove raccoglieva le uova. Successivamente cerca di raggiungere la Libia: il Mali non era più un Paese sicuro. Anche lui si affida alle “macchine del deserto” attraversando il Sahara fino a raggiungere la Libia. Anche questo un viaggio difficile: “eravamo stretti, l’acqua veniva razionata. Da mangiare? Solo qualche biscotto” spiega senza mezzi termini. Un viaggio durato 2 giorni, ma giunto in Libia viene bloccato e arrestato praticamente subito, così finisce in un carcere. “Per uscire dovevamo pagare, ma io non avevo niente. Chi mi ha arrestato si era portato via tutti i miei soldi e i documenti”. Così rimane solo, senza un centesimo, in mano ai trafficanti in un carcere libico. Anche lui racconta delle difficili condizioni in cui vivevano e di come li trattavano; “erano molto duri”. Dopo circa un mese, alcuni di loro furono portati su una spiaggia per essere imbarcati. Una decisione per lui incomprensibile. “Non ho pagato, – spiega – ero molto piccolo e gracile, ancora minorenne, quindi mi hanno lasciato andare. Mi hanno portato insieme a molti altri giovanissimi in una grande spiaggia, eravamo più di 100. C’erano molte donne e bambini molto piccoli.” Si può ritenere tra i più “fortunati”, data la sua breve permanenza nel carcere. Ibrahim resta su quella barca 3 giorni, senza acqua e senza cibo. Racconta che molti si sono sentiti male, diffondendo panico a bordo. Il clima a bordo si faceva sempre più pesante e difficile con il passare delle ore. Fino a quando l’imbarcazione di una ong straniera li soccorre. Sbarcato al porto di Trapani, viene trasferito dapprima a Mazara del Vallo e poi in un centro per minori stranieri non accompagnati di Marsala, in cui inizia a frequentare alcuni corsi di alfabetizzazione. Nella città lilybetana resta 3 mesi, poi, una volta maggiorenne, viene trasferito ad Alcamo e oggi a Castellammare del Golfo.

Foto Ansa

Ibrahim impara in fretta, studia molto, e finalmente trova anche un lavoro. “L’anno scorso ho iniziato uno stage in un ristorante di Castellammare, come lavapiatti. Mi sono trovato molto bene, il lavoro mi piace, ma soprattutto mi permette di imparare il mestiere che un giorno mi piacerebbe poter fare: il cuoco.” Ibrahim sogna di fare lo chef, per questo motivo vorrebbe frequentare la scuola alberghiera per poi intraprendere la carriera in cucina. Per restare in Italia ha un permesso di 5 anni, tra gli altri, possiamo dire che è tra i più fortunati. Il decreto Salvini non lo riguarda. “Io vorrei lavorare qui in Italia, ma se un giorno questo non mi sarà più possibile andrò in un altro Paese dell’Europa. Voglio continuare a studiare. Tornare in Mali? Prima o poi penso di sì. Ho mia madre, mio fratello e mia sorella che ogni tanto sento. Per il momento l’unico obiettivo è tornare in una cucina e lavorare.” Ibrahim sembra sicuro della sua scelta. Archiviata la stagione estiva a Castellammare del Golfo sta già cercando un nuovo lavoro, magari ad Alcamo. Lo incontriamo proprio mentre la responsabile del centro gli comunica che in un ristorante cercano qualcuno. “Ibrahim, hai aggiornato il curriculum? Dai, facciamolo insieme così oggi stesso vai a chiedere il lavoro”. Inutile dire che non se l’è fatto ripetere due volte.

Foto di copertina Unicef Italia (©UNICEF/UN037267).

La prossima storia sarà pubblicata domenica 20 gennaio 2019.

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.