Racconti migranti/1. La storia di Omar: “In Italia per studiare ed essere libero di scegliere il mio futuro”

Dalla Guinea all’Italia passando per la Libia “che soffoca la libertà”, il racconto di chi ce l’ha fatta e sogna una vita diversa

CASTELLAMMARE DEL GOLFO. “Libertà e democrazia sono principi fondamentali che qui ho imparato e toccato con mano”, è questo l’incipit del racconto di Omar, nome di fantasia, guineiano di 19 anni con regolare permesso di soggiorno ospite fino a qualche tempo fa di un centro di accoglienza, uno SPRAR di Balata di Baida, frazione di Castellammare del Golfo. La sua è una storia recente, ancora nitida. Il suo racconto colpisce soprattutto per la profondità con cui esprime il suo pensiero: sicuro, deciso. È in Italia da appena due anni, ma parla bene l’Italiano. “Ho imparato subito la lingua, mi piacciono molto, in particolare quella italiana. In Guinea studiavo il francese e per 9 anni e mezzo ho frequentato la scuola. Poi questo non fu più possibile e, in un momento particolare della mia vita, decisi di lasciare il mio Paese per cercare di proseguire gli studi, mio unico obiettivo.” Omar è giovane, ma ha le idee chiare: studiare, imparare, conoscere il mondo che lo circonda per poter crescere umanamente e professionalmente. La parola studio è quella che pronuncia di più durante il suo racconto, quasi come un’ossessione.

Il momento in cui decide definitivamente di lasciare la sua casa e i suoi affetti se lo ricorda bene: “è stato un momento molto difficile per me, tutto è iniziato dopo la scomparsa dei miei genitori e da lì mi venne vietata la scuola e lo studio…” Omar racconta quei momenti davvero difficili e duri. Viveva in una casa con i due fratelli e il padre che, dopo la morte della madre, si era risposato. Il padre era un commerciante, trasportava merci su e giù per il Paese; una volta anziano decise di farsi aiutare dal fratello e nello stesso tempo continuare a far studiare i figli. Ma un giorno quell’equilibrio venne spezzato. Tutto cambiò all’improvviso. Quella serenità venne interrotta per sempre da un avvenimento inaspettato e lacerante per chiunque, la perdita del padre: “Mio padre stava tornando dalla banca dopo un viaggio di lavoro, aveva depositato gli incassi e sulla strada del ritorno venne affiancato da degli uomini armati che gli chiesero i soldi. Ma lui non aveva più l’incasso con sé, così gli spararono. Morì qualche ora dopo in ospedale. Da quel momento, io e i miei fratelli, rimanemmo soli con il fratello di mio padre. Da lì in poi niente sarebbe stato più lo stesso.” Infatti Omar inizia a saltare la scuola, gli veniva vietata: doveva fare piccoli lavoretti per lo zio, doveva mettere da parte lo studio. Momenti terribili di cui porta ancora i segni: botte, schiaffi, segni di bruciatura sul braccio. “Guarda – racconta mentre mostra il braccio destro – questo è il segno del ferro rovente sulla mia pelle.” La sua colpa? Voler continuare gli studi. “Ero estraneo a casa mia, non avevo più niente e non potevo reagire.” Così, dopo diverse minacce e intimidazioni, decide di fuggire dal suo Paese in compagnia del fratello maggiore. Era il 2015.

Foto Ansa

Su un autobus insieme al fratello attraversa la Guinea, il Mali, fino in Algeria, rimane lì circa 6 mesi e cerca di studiare, ma non gli è consentito, in Algeria si parla arabo e non poteva frequentare la scuola. Così arriva fino al confine tra Libia, Algeria e Tunisia, a Ghadames una città-oasi di passaggio, da cui passano migliaia di ragazzi che affronteranno poi il viaggio verso l’Europa. “Io non pensavo di arrivare in Europa, non mi è mai passato per la mente, volevo solo lavorare e studiare lontano dal mio Paese, in cui la democrazie è solo sulla carta. Diciamo che sa hai i soldi, in Guinea, hai sempre ragione, diversamente non sei nessuno.”

Omar a Ghadames finalmente trova un lavoro, seppur non proprio quello che cercava: insieme al fratello lavora in un pollaio. Ma sarà proprio quel lavoro, durato circa 6 mesi, che lo porterà ad affrontare il viaggio più lungo della sua vita: quello per l’Europa. Racconta che ad un certo punto il datore di lavoro lo vende, insieme ad altri ragazzi, a dei trafficanti, come una sorta di “schiavo”. “Tutto questo, a distanza di tempo, mi ricordano i racconti di Primo Levi sulle deportazioni, eravamo praticamente merce di scambio, eravamo stati venduti per soldi.”

“Ci avevano venduto ai libici, eravamo in ostaggio e per essere liberati dovevamo dare loro dei soldi. Ma era chiaro che non ne avevamo: cercavano soldi dal nostro Paese, una sorta di riscatto. Ci hanno portato a Sabrata, in una grande casa, sembrava un centro di accoglienza ma in realtà era una prigione. Per le strade si sentivano sempre spari, ho avuto paura. In quella casa eravamo circa 500 ragazzi, tutti nella stessa situazione. Potevamo andare in cortile ma non uscire, era una prigione a tutti gli effetti. Quando ti tolgono la libertà cosa rimane? L’unica cosa consentita era pregare, poi ci obbligavano anche a dormire, nessuno poteva restare sveglio fuori dagli orari da loro imposti. Finisci per perdere anche la percezione del giorno e della notte.” Quando parla di quel centro, che a tratti chiama carcere, si percepisce tutta la sofferenza di quei momenti. Ma non era solo la permanenza in quel posto che l’opprimeva. Nel frattempo viene a mancare pure il fratello. Morto in circostanze misteriose nel viaggio da Ghadames al centro/carcere di Sabrata. Lui era in un altro gruppo di trafficanti. “Ho appreso della morte di mio fratello da alcuni ragazzi che erano nel suo stesso gruppo. Non ho voluto sapere i dettagli della morte, mi avrebbero provocato troppo dolore. Da quel momento, quindi, rimasi solo.”

Solo. In un carcere libico, senza più una spalla, un punto di riferimento. Solo, senza vie d’uscita dall’inferno per lui difficilmente immaginabile prima della partenza dalla sua città. La svolta arriva quando incontra un’Imam che lo guida nella preghiera e lo libera insieme ad atri ragazzi. Passa qualche giorno con lui e pregano. “L’Imam prendeva a cuore le storie di noi più giovani, ci ha aiutato molto. Un giorno disse: ‘ho una sorpresa per voi, consideratelo un regalo.’ Era il periodo di ramadan e così decise di aiutarci. Ci portò sul mare e lì ci imbarcammo su una grossa barca piena di ragazzi, uomini, donne e bambini, eravamo circa un centinaio. Stavamo comodi, un po’ stretti, certo, ma diciamo, non ammassati. Siamo partiti intorno alle 2 di notte da una spiaggia libica, a bordo alcuni vomitavano e stavano male, ma tutto sommato il viaggio è stato tranquillo.” L’odore di salsedine creava nausea ad alcune donne, forse incinte. L’odore acre di benzina era predominante. Il mare calmo cullava i bambini che restavano aggrappati alle loro madri. Ad illuminare il viaggio solo la luna, a guidarli nel buio della notte soltanto la bussola del capitano. Tunisini, marocchini e guineiani in maggioranza, alcuni li conosceva, erano stati nello stesso gruppo dell’Imam per alcuni giorni. Omar non sapeva dove erano diretti, aveva intuito che sarebbero andati in Europa, ma lui aveva in testa un unico obiettivo: ritrovare serenità e continuare gli studi.

Foto Ansa

Intorno alle 7 del mattino sarà una nave portoghese ad accorgersi di loro e a salvarli dal mare che da lì a poco sarebbe diventato più duro da affrontare. Vengono così portati al porto di Catania, dove vengono identificati e schedati. “Mi è stata fatta anche una radiografia per accertare la mia vera età, ma non ho mentito”, aggiunge sorridendo mentre mostra le foto dei momenti in Guinea. Non appena gli assegnano il tutor viene trasferito in un centro di Calatafimi Segesta e lì inizia a frequentare i primi corsi di italiano. Poi, a 18 anni, viene trasferito al centro di Balata di Baida, a pochi chilometri di distanza. “Ho lasciato bei ricordi a Calatafimi, mi sono trovato davvero bene e per questo ringrazio tutti quelli che ho incontrato e la mia tutor.”

Anche in Italia la sua ossessione è sempre la stessa, lo studio. Riesce così a frequentare la scuola media serale presso l’istituto Bagolino di Alcamo, poi segue diversi incontri sulla narrazione, alfabetizzazione, integrazione e sulla cultura siciliana all’Istituto Piersanti Mattarella-Danilo Dolci di Castellammare. “Abbiamo fatto uno scambio culturale con gli studenti della scuola, ci siamo raccontati e condiviso esperienze. Ho imparato a conoscere la cultura siciliana, la Costituzione e l’educazione civica, tutto questo ci consente di diventare buoni cittadini”. Omar è curioso, durante gli incontri a scuola fa domande, la sua voglia di conoscere e rispettare le leggi italiane “per vivere da cittadino modello” non passa inosservata. “Qui tutto è diverso dal mio Paese, qui c’è la democrazia, da noi c’è dal 2010 ma solo sulla carta. Qui ho imparato cos’è la vera democrazia e cosa sono i diritti umani, in Guinea i mie diritti erano stati negati, non ero più libero di decidere della mia vita e del mio futuro”. Dopo tante sofferenze è felice. Lo abbiamo incontrato durante il suo ultimo giorno a Castellammare; oggi infatti vive e studia a Palermo, ospite di una onlus che si occupa di assistenza ai migranti. Frequenta l’istituto turistico e spera un giorno di frequentare anche l’Università, sempre a Palermo. “Mi piacerebbe frequentare la facoltà di lingue e magari diventare un mediatore culturale, ma mi affascina molto anche l’economia. Ci sarà tempo per decidere” – spiega sorridendo. Nel frattempo si è appassionato alla scrittura e sta scrivendo la sua storia, dalla vita in Guinea fino all’arrivo in Italia. “Mi piacerebbe un giorno raccontare la mia storia attraverso un documentario, intanto ho già iniziato a scrivere.”

Quando torniamo a parlare della Libia i suoi occhi diventano lucidi. “Io fortunatamente non ho subito violenze, ma ho appreso da amici meno fortunati anche di torture. Mi hanno parlato di trafficanti molto violenti, ma fortunatamente sono rimasto poco in quei posti. Quella libica è una nuova tratta degli schiavi, si uccide spesso perché il migrante viene considerato nessuno. Io sono riconoscente all’Italia, mi sono sempre trovato bene, sono stato accolto e ho avuto la possibilità di realizzare il mio sogno, studiare. Per questo non smetterò mai di ringraziare gli italiani e i siciliani in particolare”. E sul futuro risponde in modo sicuro e determinato: “La cosa più importante è finire gli studi, mi piacerebbe vivere qui, amo la lingua, la cultura… tornare in Guinea adesso no, mi sentirei solo, non ho più nessuno a parte i mie nonni e il mio fratellino di 13 anni che sento una volta al mese. Ma di una cosa sono certo: un giorno tornerò a casa per riprendermi le mie cose, quello che mi spetta, quello che un tempo fu di mio padre. Ho detto no alle minacce, alla paura e al terrore. Ma tornerò sicuramente consapevole dei mie diritti e delle mie possibilità”.

“In Guinea era in gioco il mio futuro, qui mi sento libero di poter decidere per me e poter studiare e realizzare i miei sogni. L’Italia mi ha permesso di ‘conoscere per poter distinguere’ ed essere più consapevole. Così un giorno potrò lottare con tutta la mia forza per cambiare lo stato delle cose, come altri hanno fatto prima di me. Sono convinto che un sorriso può fermare anche un conflitto.”

La prossima storia sarà pubblicata domenica 30 dicembre 2018.

Foto di copertina Ansa Alqamah.

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Emanuel Butticè
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.