Mafia: Cassazione, boss non può essere definito escremento 

Ha diritto a dignità. Caso Agate, processo bis a giornalista Giacalone. Le reazioni di Mattiello (Pd) e Giarrusso (Cinquestelle).

Anche un boss di mafia come Mariano Agate, capo mandamento di Mazara condannato all’ergastolo per la strage di Capaci, morto il tre aprile 2013 a 73 anni, ha diritto alla “dignità” che il “nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi è appartenuto a una associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia)” e non può essere paragonato ad un escremento. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, in base alle quali, lo scorso maggio, ha annullato l’assoluzione emessa “perchè il fatto non costituisce reato” del blogger Gaspare Giacalone dall’accusa di aver diffamato la memoria di Agate perchè sul web ne aveva ricordato la storia criminale concludendo che la sua morte aveva tolto alla Sicilia “un gran bel pezzo di m….”. E’ stato così accolto il ricorso della Procura di Trapani, supportato dai familiari di Agate. Ad avviso della Suprema Corte, “il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la ‘rieducabilità’ anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione”. Giacalone, querelato dalla vedova e dai figli del boss, era stato prosciolto dal giudice di Trapani Gianluigi Visco, nel giugno 2016, in quanto l’espressione usata “imponeva al lettore di confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale” di Cosa Nostra “di cui era parte l’Agate, in un contesto ambientale nel quale la confusione (o apparente coincidenza) tra valori e disvalori costituisce un obiettivo preciso del sodalizio criminoso”. Secondo il tribunale la frase “rappresentava uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento” per “sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di stradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppur artatemente confondibili) sistemi valoriali”. Ma la Cassazione si è dissociata “dalla finalità” perseguita dal blogger “di aggredire l’ambiguità del sistema di controvalori mafioso” ritenendola “non idonea a giustificare la lesione di un valore fondamentale della persona”. “E si ritiene doveroso aggiungere – prosegue la Suprema Corte – di qualunque persona, anche del riconosciuto autore di delitti efferati, giacchè proprio il rispetto di tali diritti vale a qualificare la superiorità dell’ordinamento statale, fondato sulla centralità della protezione dell’individuo, rispetto ad organizzazioni criminali, che invece si nutrono del sostanziale disprezzo di chi non risponda alle proprie finalità, quale che sia il modo in cui esso possano autorappresentarsi per cercare di conquistare il consenso sociale”. Aggiunge inoltre la sentenza 50187 che la “celebre frase” di Giuseppe Impastato – “la mafia è una montagna di m….” – sottolineava “la devastante capacità” dei clan di “intaccare le strutture portanti della società civile” e non può essere d’aiuto perchè non prendeva di mira il singolo. Giacalone tornerà sotto processo davanti alla Corte di Appello di Palermo. A lui era stata espressa solidarietà dalla Fnsi, e da parlamentari dem e M5s, come Mattiello e Giarrusso. E le prime reazioni sono giunte proprio dai due parlamentari. “Le motivazioni della Cassazione sconcertano – dice l’on. Davide Mattiello –  la lesione della dignità della persona sta nelle azioni compiute dalla persona medesima, non nelle parole che si adoperano per descriverle. E’ senz’altro vero che il nostro ordinamento giuridico tutela la dignità di chiunque, ma davvero quella di Agate, boss di Cosa Nostra, responsabile di delitti efferati è messa in discussione dalla parola usata da Giacalone? E’ paradossale. La dignità di Agate è stata erosa dai delitti che questi ha commesso, senza mai pentirsi nell’unico modo che è dato di cogliere alle Istituzioni di uno Stato laico, cioè attraverso la collaborazione con la Giustizia. La dignità di una persona viene compromessa dalla violenza che questi genera, dal dolore ingiusto provocato nelle vittime, un dolore spesso senza fine. Quando una persona offende la sua stessa dignità compiendo tanto male, diventa non soltanto criminale, ma un “bandito” cioè una persona degna di essere espulsa dal consorzio sociale. Esattamente come si fa con un escremento: espulso dal corpo, bandito, appunto (tanto che si tira anche l’acqua!). Giacalone ha usato una parola appropriata per definire una realtà che dovrebbe essere, quella si, ritenuta indegna”. E il senatore Mario Giarrusso: “In questo paese ormai completamente devastato dalla corruzione e dalle mafie, si è perso qualsiasi senso della misura, se non del ridicolo. La Cassazione, con la sentenza in questione, non sta recando offesa e discredito al bravo e coraggioso giornalista Rino Giacalone, ma sta condannando in maniera postuma e retroattiva Peppino Impastato. È stato Peppino Impastato a definire la mafia una montagna di merda. È stato Peppino Impastato ad apostrofare come pezzo di merda Tano Badalamenti. E non erano insulti per questioni personali, ma pesanti giudizi civili su un fenomeno criminale come “Cosa Nostra” e sui suoi capi e gregari. Con questa sentenza la Cassazione afferma invece che Peppino Impastato sbagliava e commetteva addirittura un reato. Povero Peppino, per quale paese di vigliacchi infami hai dato la vita. Forse non ne valeva la pena. Non valeva la pena dare la vita per uno stato che difende la “dignità ” dei mafiosi. Uno stato simile non ha più dignità nè autorevolezza. Di simili giudici questo povero paese non ha proprio bisogno. Con questa oltraggiosa sentenza, questi giudici si sono schierati.  Non è vero che il diritto è neutrale.  I vigliacchi sono neutrali, gli altri scelgono da che parte stare. Il nostro paese ha bisogno di schierarsi contro le mafie e poterle giudicare ora e sempre, una montagna di merda. Con nomi cognomi e facce annesse. Gli altri, quelli che scelgono di tutelare “cosa nostra” ed un pericoloso e sanguinario boss come era Mariano Agate, sono inutili e dannosi e come tali vanno dismessi. Se no non vinceremo mai la lotta contro le mafie”. “Abbiamo atteso mesi per leggere  queste motivazioni – dice a sua volta Rino Giacalone che è stato difeso dagli avvocati Enza Rando, Carmelo Miceli, Giorgio Vasaturo e Domenico Grassa – i giudici non hanno accolto la richiesta del procuratore generale di rigetto dell’appello prodotto dalla Procura di Trapani ma sopratutto hanno voluto annullare una sentenza di assoluzione tra le pochissime in Italia pronunciate in nome all’articolo 21 della Costituzione, articolo in nome del quale continuerò ad appellare come pezzi di merda, perché appartenenti alla montagna di merda mafiosa, i boss che si sono macchiati di gravissimi reati con i quali ogni qualvolta sono stati commessi hanno tentato di scardinare nel nostro Paese la libertà e la democrazia”.