La ferocia della seconda generazione

La forza delle mafie, dicono gli esperti, sta soprattutto nella impenetrabilità, nella corteccia esterna che protegge il ventre molle dell’organizzazione. Non c’è, dunque, da stupirsi se la ’ndrangheta (una delle mafie più antiche e strutturate) si è data la forma che, più di ogni altra, garantisce protezione dalle minacce esterne. La mafia calabrese è la più «familistica» delle organizzazioni criminali che hanno intrapreso il viaggio verso il Nord. Chi può pensare di violare con facilità gli inconfessabili segreti di una famiglia? E, d’altra parte, siamo di fronte a un sistema ampiamente collaudato anche in altre zone del Sud mafioso, principalmente in Sicilia, dove la struttura piramidale di Cosa nostra poggia da secoli sul sacro vincolo familiare e le singole organizzazioni di base vengono chiamate, appunto, «famiglie».
 Nelle dinastie, si sa, esistono le generazioni. Nella mafia quelle più giovani ereditano sia il potere dei padri, sia le «istruzioni» per esercitarlo e prolungarlo nel tempo.

In Piemonte, a Torino e nelle vicinanze, sembra sia arrivata la seconda generazione della ’ndrangheta, quella che, per motivi anagrafici, ha resistito alla repressione dello Stato (8 processi in un decennio) e adesso si appresta a gestire l’enorme quantità di profitti derivanti dal narcotraffico, riciclandoli in attività più o meno lecite oppure nella grande palude degli appalti pubblici ottenuti proprio grazie alla forza intimidatrice, alla capacità pervasiva della corruzione e all’enorme possibilità di investire denaro contante.

 La linea della palma, ha profetizzato Leonardo Sciascia, «va verso Nord». Ma questa semplice verità non piaceva, e continua a non piacere, ai tranquilli cittadini del Nord che hanno preferito «non vedere» e far finta di «non sapere». Mentre sarebbe bastato dare una scorsa anche solo ai cognomi per capire quanto lungo sia il filo mafioso, partito nei Settanta coi sequestri di persone di cui il Nord fu terreno fertile. I soldi degli imprenditori nordici rapiti finivano innanzitutto al Sud. Sulla costa calabrese sorgevano villaggi turistici che venivano «battezzati» coi nome dei sequestrati: clamoroso il «Villaggio Getty» messo su col riscatto pagato dal magnate americano Paul. Poi, piano piano i padri portarono i soldi in Canada, in Germania, in Australia, in Svizzera e nel «Nord laborioso italiano». I figli erano piccoli, i Marando, gli Agresta, i Barbaro, famiglie col pedigree, «occuparono» Piemonte e Lombardia (Corsico, Buccinasco sciolto per mafia), insieme coi Sergi e i Papalia.

La repressione ha fatto quel che ha potuto. Le mafie hanno esportato un metodo, un sistema, oggi gestiti dalla seconda generazione della ’ndrangheta emigrata. Giovani sfrontati e violenti, capaci di relazioni con la società civile, ma pronti a trasformarsi quando si tratta di andare a riscuotere il pizzo o imporre un’impresa durante una gara d’appalto.

Sono più pericolosi dei loro padri, da cui hanno assorbito il brodo primordiale della violenza e della sopraffazione. Rischiano poco coi pentimenti perché essendo parenti tra di loro difficilmente manderanno all’ergastolo padri, zii o fratelli. Ecco il vantaggio del vincolo familiare. Che, tuttavia, offre anche un rischio: quello dell’insorgere di faide violentissime tra consanguinei. Come ci ha raccontato nel suo bellissimo «Anime nere», il calabrese Gioacchino Criaco nel tentativo di dare una scossa alla sua terra, amata e odiata.

di Francesco La Licata

fonte lastampa.it

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