Falcone, il ricordo, l’impegno

A 25 anni da Capaci , in un Paese che omaggia le vittime ma non sa cambiare

di Giulia Giacalone

23 Maggio 1992, Capaci, Sicilia. Era un Sabato, e in questo periodo in Sicilia è quasi estate, inizia quel periodo in cui è piacevole godersi qualche soffio di scirocco che porta un pizzico di salsedine. E poi in Sicilia c’è il sole, che rievoca felicità e spensieratezza. Quando ero piccola pensavo che non si poteva morire con il sole. La morte è buia, rievoca qualcosa di tenebroso, niente a che vedere con la luce. Per questo pensavo che, se si doveva morire, bisognava farlo solo la sera. Almeno pensavo che doveva essere così in un mondo ragionevole. Crescendo, ho capito, che di ragionevole questo mondo non ha nulla.

Non ricordo nulla di quel giorno, troppo piccola per capire. Crescendo, studiando, ascoltando, capii molte cose: che per esempio esiste la mafia, che degli uomini possono morire perché portano avanti delle idee, perché la legalità e l’onesta non è cosa da tutti e che è meglio nascondersi dietro mezze frasi che dire ciò che si pensa veramente.

Quel 23 maggio 1992 persero la vita 5 uomini. Cinque quintali di tritolo posti sotto l’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi conduce a Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci, fanno saltare in aria la fiat Croma sulla quale viaggia il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli uomini della sua scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo. E’ un attentato al cuore dell’Italia intera. La mafia colpiva a morte un magistrato simbolo: la mente e il braccio più illustre della lotta contro la mafia, contro Cosa Nostra. Colpendo Giovanni Falcone, la mafia colpiva lo Stato, colpiva tutti i cittadini.

Tante volte ho percorso quell’autostrada, soprattutto in questo periodo,  e ogni volta passando per  quello svincolo non posso fare a meno di volgere lo sguardo verso quel monumento di granito rosso e quella casa bianca in lontananza da dove partì il comando per far saltare in aria il giudice.

Tutti bravi oggi a commemorare Falcone. Falcone che è diventato simbolo di uno Stato legale che fa dell’illegalità la sua condotta quotidiana. Ma ricordiamoci che non è solo la mafia che uccide, il silenzio, l’omertà, chinare il capo e fare finta di niente annientano più di un colpo di lupara. Falcone e anche Borsellino ci hanno lasciato un’eredità morale: bisogna agire con i fatti e con le parole, ma non quelle vuote e di facciata, che sentiamo uscire dalla bocca di alcuni che in questi giorni di commemorazione ricordano le vittime della lotta alla criminalità organizzata. La stima, la memoria nei confronti di una persona non si manifesta con proclami e parole commoventi, ma si dimostrano anche lavorando in silenzio per tramandare  le sue azioni. Proprio per questo non dobbiamo essere indifferenti, non dobbiamo colludere con questa mimetizzazione della mafia che la rende sempre più infiltrata nella nostra quotidianità.
Dobbiamo informarci, rifiutare quello psichismo mafioso, sforzarci di ricordare, di vedere, di parlarne, perché, come scriveva Danilo Dolci, “chi tace è complice”.

Giovanni Falcone continua a vivere. Vive ogni volta che un mafioso viene arrestato, che un cittadino normale decide di ribellarsi all’illegalità, che un ragazzo che nel 1992 non era ancora nato esprime tutto il suo disprezzo nei confronti della mafia. Ma Giovanni Falcone vive anche quando qualcuno propone di abolire il 41bis per risolvere i problemi delle carceri italiane, di alleggerire la pena per il reato di concorso esterno

E’ giustissimo ricordare l’operato di Falcone, ma l’unico modo per onorare veramente il Giudice, in questi 24 anni, sarebbe stato cambiare questo Paese. Non si può omaggiare Giovanni Falcone senza cambiare l’Italia. E purtroppo l’Italia non cambia.

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