Sentenza annullata

La Cassazione manda dinanzi alla Corte di Appello di Palermo il ricorso della Procura di Trapani contro l’assoluzione del giornalista Giacalone querelato dai familiari del capo mafia Mariano Agate
La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione emessa lo scorso anno dal Tribunale di Trapani, nei confronti del giornalista Rino Giacalone che in un blog aveva apostrofato un boss della mafia trapanese come «gran bel pezzo di merda». L’accusa è di diffamazione a mezzo stampa e stamane i giudici della quinta sezione hanno rinviato gli atti processuali alla Corte d’Appello di Palermo, nonostante il procuratore generale durante la requisitoria avesse chiesto «l’inammissibilità del ricorso» alla quale si era associato il team di legali del giornalista (composto dagli avvocati Enza Rando, Giulio Vasaturo, Carmelo Miceli e Domenico Grassa). Il procedimento era scaturito dalle denunce di Rosa Pace, vedova di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo deceduto per cause naturali nell’aprile 2013. Nei giorni seguenti alla morte il questore di Trapani aveva vietato i funerali pubblici ed anche il Vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero aveva rifiutato i funerali religiosi. In quei giorni Giacalone, attraverso un articolo pubblicato sul portale Malitalia.it, aveva ricostruito i trascorsi di Mariano Agate aggiungendo l’augurio che la sua morte togliesse alla Sicilia la presenza di «un gran bel pezzo di merda». In seguito alla sentenza di assoluzione, emessa il 7 giugno dello scorso anno, il pm della Procura di Trapani, Franco Belvisi aveva presentato un ricorso «per saltum» in Cassazione. I giudici, rilevando un «vizio di diritto» hanno annullato la sentenza. «Aspettiamo serenamente le motivazioni della sentenza – dicono i legali del giornalista – e ci rinviamo alla corte d’appello per dimostrare l’assoluta irrilevanza penale dello scritto di Giacalone. L’espressione non integra il reato di diffamazione ma va interpretata come un richiamo alla frase pronunciata da Peppino Impastato. E’ una sineddoche utilizzata con intento «non denigratorio», con l’attribuzione della valenza pedagogica, come ha detto il giudice di primo grado».
fonte agi.it
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