L’unica cosa importante che mi successe la prima volta che andai in America

 L’unica cosa importante che mi successe la prima volta che andai in America12200865_10206478102143017_1121219128_n

«Vi pare che babbìo? Parola d’onore! A dieci anni lo scoprii come mi chiamavo, sissignori, a dieci anni! Al porto di Nuovaiorca. Che poi porto…era una specie di isola che stava accanto alla Statua della Libertà…ora non mi ricordo come si chiama, un nome strano aveva. Comunque, stavamo lì. Che tutti erano passati subito subito e invece questo impiegato –un ragazzo che poteva avere vent’anni, ma senza capelli- guarda i nostri documenti e poi guarda a me, ferma mio padre e ci fa: «Who is the father of this kid?»- Chi è il padre di ‘stu bambino? Come se si aspettasse che mio padre davvero piglia e gli rispondeva.

E mio padre a fissarlo sorridendo, come a dire vediamo quanto tempo mi deve fare perdere ‘stu stronzo. Che alla fine quello lo deve aver capito che non c’era verso perchè butta una voce nell’altra stanza per chiamare qualcuno.

«Di chi è figlio ‘sto piccirillo?» ci fa l’interprete.

E mio padre: «Figlio mio è, di chi dovrebbe essere figlio?»

«The last name, the last name!» grida l’impiegato tignoso.

«’A signore, qua risulta che il bambino c’ha un cognome diverso dal suo»

«Zittuti, curnutu, chi lu picciriddu un sapi nenti!»

E mio padre e l’interprete cominciano a urlarsi addosso che sembra che si vogliano scannare, con l’impiegato tutto sudato che cerca di mettersi in mezzo: «Keep calmi, keep calmi!»

E mia madre mi stringe forte la mano e comincia a piangere.

Fu così che scoprii in un colpo solo: primo, di essere stato adottato, secondo, di non chiamarmi Antonio Alesi come avevo sempre pensato, ma Giuseppe Segreto.

E questo, il fatto che scoprii come mi chiamavo intendo, si può dire che fu l’unica cosa di una certa importanza che mi successe la prima volta che andai nella Merica, perchè ci stettimo giusto giusto tre mesi. All’epoca non è che era come ora, che i picciotti prendono l’aereo e partono, se ne vanno in America e tempo una settimana sono di nuovo a casa, no, allora chi partiva –partivamo col piroscafo che ad arrivare ci metteva diciassette giorni- poi, o non tornava, o minimo minimo tornava dieci anni dopo. E infatti mia nonna Margherita -l’avete conosciuta mia nonna Margherita, non è vero? Abitava in fondo alla vostra strada e ogni giorno si metteva davanti la porta a pettinarsi i capelli che quando li scioglieva ce li aveva lunghi fino ai piedi…Non ve la ricordate? Se vi faccio vedere una foto sicuro ve la ricordate- mia nonna Margherita dicevo, quando fu che partimmo si mise i vestiti del lutto e stette una settimana a piangere e a gridare che sicuro che non ci vedevamo più, che era era una vecchia male combinata che quasi non si poteva più alzare dal letto e sicuro che tempo un mese sarebbe morta. E invece noi tornammo dopo qualche mese e la trovammo bella grassa e sorridente –poi scoprimmo che aveva preso a frequentarsi con il vedovo Grisanti della porta accanto- e  poi campò ancora non so quanti anni.

Come, che successe che tornammo così presto? Successe che ci capitò una gran botta di culo. Un giorno piglia e ci arriva una lettera dall’Italia, che appena la leggono mio padre e mia madre si comprano due bottiglie di vino e se le scolano sane sane, e mia madre a cantare per tutta la casa…non l’avete sentita cantare mai a mia madre, non è vero? Meglio così, aveva ‘sta fissa di sapere cantare bene ma proprio non era cosa. Insomma era successo che lo zio di mio padre, tale Arturo, era morto, e siccome a qualcuno poco prima gli era saltato il ticchio di andargli a dire che il suo amato figliolo Enrico –che detto fra noialtri, era pure un gran pezzo di cosa inutile- non era propriamente figlio suo, ma di un tale Buttafuoco che faceva il macellaio, cosa che del resto sapeva tutto il paese, lo zio Arturo aveva deciso di lasciare a noi le cinque salme di terra che toccavano a suo figlio e le due che toccavano ai nipoti di sua moglie. Perchè ci voleva bene lo zio Arturo a mio padre, lui sempre ci andava a salutarlo e spesso ci portava gli sparacelli o i giri che aveva raccolto in campagna e pure qualche coniglio che aveva acchiappato. Perciò lo zio Arturo ci lasciò ‘ste terre e mio padre si fece quattro calcoli e vide che ci conveniva di più assai tornare e badare alla robba qui che no rompersi il culo a Broccolino a fare il muratore. E così prendemmo il primo piroscafo per tornare.

Poi a me, dopo il fatto che era successo all’isola di Nuovaiorca -Elli-Aila si chiamava l’isola, ora ora me lo ricordai- me lo raccontarono come era stato che mi avevano adottato.

12188733_10206478113383298_1821113520_nIn pratica la zia Maria Fanuzza, che era compare di matrimonio dei miei genitori e abitava di fronte casa nostra, faceva la portinaia all’ospedale. Un giorno che aveva fatto il turno di notte andò per aprire la porta dell’ospedale alle sei di mattina e lì per terra c’ero io, avvolto in una tovaglia di corredo che piangevo. Ora ‘ste cose non le fanno più, ma all’epoca non era raro lasciare i bambini davanti agli ospedali o ai conventi, e la zia Fanuzza chissà quanti ne aveva visti prima di me. Perciò fece quello che faceva sempre, mi affidò a un’infermiera e avvertì quelli del comune perchè mi registrassero, e stop. Poi però le venne un pensiero. Pensò cioè a mia madre Caterina. Mia madre allora aveva già quarantadue anni e quattro figli maschi. Ora, si sa che i figli maschi sono la ricchezza della casa e tutte queste belle cose, però mia madre era da quando si era sposata che voleva una femminuccia da chiamare Lucia. Era tanto devota a Santa Lucia mia madre, perchè quando era piccola l’aveva guarita da una malattia agli occhi che i dottori avevano detto che non c’era niente da fare e che sarebbe rimasta cecata totale. Però ormai aveva quaradue anni e pensava che non era più cosa. Mia zia Fanuzza manco si era preoccupata di controllare se ero maschio o femmina. Poi però le venne in mente che se ero femmina magari mi poteva adottare sua compare Caterina. Così andò a spiarci all’infermiera che mi aveva preso in custodia, tale Dora Piccione. E quella, a colpo sicuro: «Femmina è!»

Minchia. La zia Fanuzza tutta contenta corre e lo va a dire a mia madre. E quella –figuratevi- più contenta ancora! Piangeva che non si poteva tenere, e diceva che il Signore per questo non le aveva dato mai una bambina, perchè potesse aiutare una povera innocente abbandonata crescendola come figlia sua!

Scusatemi, ma a me ‘ste cose mi commuovono, mia madre non lo potete capire che donna era, non ce ne sono più…

Comunque, mio padre e mia madre vanno in comune per firmare le carte per l’affidamento, tutti vestiti eleganti, con mia madre che ancora piangeva…E quello del comune ci fa: «Come da prassi abbiamo già battezzato il bambino e gli abbiamo messo Giuseppe, Giuseppe Segreto…»

«Come Giuseppe?»

«Lo capisco che magari gli volevate mettere un nome di famiglia, ma in questi casi è obbligatorio il battesimo immediato, e poi San Giuseppe è il più grande santo della nostra tradizione, un grande nome italiano che ha portato anche l’illustre Garibaldi e non ultimo il nostro stimato sindaco, il dottor Giuseppe Labori che ha tanto piacere quando una delle nostre creature abbandonate viene battezzato con il nome del santo lavoratore…»

«Ma volete babbiare o dicite vero? Giuseppe? A una picciridda? Giuseppa magari!»

«Ma quale picciridda e picciridda! Questo qua mascolo è!»

E mia madre svenne. Poi però quando si fu ripresa pensò che non era giusto abbandonarmi solo perchè ero nato maschio e mi prese lo stesso, il quinto maschio…Scusatemi ancora ma proprio….non lo potete capire che donna era, non lo potete capire.

Comunque pure Giuseppe non andava tanto bene perchè ci si chiamava già mio fratello grande, e immaginatevi che confusione! Perciò mio padre disse: «Che ce ne fotte di quello che c’è scritto nelle carte? Giuseppe o non Giuseppe noi lo chiamiamo Antonio, come mio fratello che morse cadendo dal carretto! Antonio Alesi! Che poi, che minchia di cognome è ‘stu Segreto?»

In effetti non è che aveva tanto torto mio padre, Segreto è un cognome che davvero non ho mai conosciuto altri che ce l’hanno…di solito ai trovatelli ci mettono cognomi tipo Trovato, Diotallevi, Diodato…conosco pure uno che si chiama Allegro perchè le suore lo hanno trovato buttato fuori dalla porta tutto sorridente…ma Segreto proprio no. Si vede, come diceva mio padre, che quello del comune era uno che voleva fare il poetico.

Un’altra cosa che non capimmo mai fu come fece l’infermiera a scambiarmi per una femmina. A mia zia Fanuzza un colpo ci pigliò quando scoprì che gli aveva procurato un mascolo a mia madre, si mortificò! E disse che quella babba di donna Dora Piccione sicuro che di quanto era laria un maschio com’era fatto non lo aveva visto mai, perchè solo così si spiegava che aveva potuto sbagliare una cosa del genere.

12204530_10206477304803084_259153187_nComunque, quando tornammo dall’America tutti quanti ci mettemmo a lavorare per sistemare i vigneti che ci aveva lasciato lo zio Arturo, che quel cretino di suo figlio Enrico li aveva fatti ridurre una schifezza. Io pure ci andavo ogni giorno in campagna con mio padre però non ero cosa, non era il mio mestiere, subito mi stancavo, la mattina a ora di alzarmi mi veniva un colpo. Dicono che uno la campagna o ce l’ha nel sangue o non ce l’ha e io pure che ero con gli Adamo da quando avevo pochi giorni evidentemente non ce l’avevo. Una volta mia zia Fanuzza, che visto che lavorava all’ospedale sapeva vita morte e miracoli passati e presenti del paese, mi disse che il mio padre vero faceva il mastro ferraio. E io le dissi zia io ho grande rispetto per lei ma di queste cose non me ne deve parlare più che io un padre ce l’ho. Però in campagna non ci volevo lavorare più. E così, dopo che ci fu il fatto del ’29 -il wall street crasci lo chiamano qui, e qui non si può calcolare i danni che ha fatto e quanta gente che si è ammazzata, ma pure in Italia si è sentito, minchia se si è sentito, improvvisamente il vino è sceso da mille a trecento lire e mio padre si è ritrovato senza i soldi per finire di pagare la casa nuova- dopo il ’29 dicevo decisi di venire a cercare fortuna qui in America.

12193080_10206478102863035_453840410_oE voi mi vedete adesso con il mio negozio di proprietà e tutto quanto, ma i primi tempi la fame nera ho patito, sissignori, la fame! Raccattavo vestiti usati americani e li vendevo agli Italiani. E io avevo cominciato tanto per, perchè questo lavoro lo faceva già il mio amico Michele, Michele Giorlando, lo conoscete? Ora c’ha le pompe funebri. Però insomma dopo un poco mi ero accorto che il venditore lo sapevo fare bene. E così risparmia oggi e risparmia domani –che nel frattempo facevo pure un poco il muratore- e mi apro il mio primo negozio di vestiti di femmina! Un negozio piccolo, senza finestre, non come questo, no. Però lo sapete qual’era la soddisfazione più grande? Era mandare un poco di vestiti a mia mamma e ai miei fratelli in Italia, che ne avevano tanto di bisogno. Perchè dovete sapere che Giuseppe, mio fratello grande di cui vi dicevo, nel frattempo si era maritato e avevano cominciato a nascergli figlie femmine a tinchitè. Oggi sette ne ha, tutte belle signorine, si vede che al Signore, che è notoriamente inchiffarato, le preghiere di mia madre ci arrivarono in ritardo le figlie che aveva chiesto lei gliele sta mandando poco a poco tutte a lui. E la promessa di mia madre la rispettarono, sapete? Alle prime due che nascerono, due gemelle precise identiche che non si distinguevano, ci misero a una Santa e a una Lucia!

E mia madre…io non potti stare con lei quando era vecchia ma mi dissero che era troppo contenta di avere attorno a sè tutte queste nipotine…solo che ogni tanto si confondeva e le chiamava tutte Lucia.

E mischino mio fratello come doveva fare a vestire tutte ‘ste picciottedde che –si sa- femmine sono, e un poco vanitose? Le vestiva con le cose che ci mandavo io, che erano cose che nessuno in paese ne aveva viste mai. E lei se lo immagina che bella figura ci facevano a camminare nel corso o ad andare alla messa con le robbe americane che parevano signorine ricche?

Sempre cose buone ci ho mandato, le migliori: lo vede questo cappotto qui col collo di volpe, questo incartato? Questo pronto per essere spedito in Italia è, a Paolina che si deve sposare.

Ma voi mi dovete scusare, lo so che tendo a parlare un poco assai, ma non è che mi capita ogni giorno che mi viene a trovare qualche compaesano! Per me una gioia è, una gioia veramente! Ma mi stavate dicendo, cosa cercavate? Un vestito per la bambina! Per il matrimonio della zia, ma certo, sicuro! Venite appresso a me sul retro, che ve ne faccio vedere uno…e intanto vi racconto come fu che mi comprai questo negozio, una storia divertente è, divertente davvero…»

di Letizia Lipari

Nota: vero e inventato

Per scrivere questo racconto mi sono ispirata –manipolandola e reinventandola ampiamente secondo quello che mi suggeriva la fantasia- alla storia vera di Giuseppe Segreto, abbandonato davanti l’ospedale di Alcamo nel novembre del 1904.

La sua storia circolava da generazioni nella mia famiglia in forma più o meno leggendaria: si diceva che, neonato, fosse stato trovato sul ciglio della strada da un mio lontano e poverissimo prozio, Salvatore Alesi, mentre andava in campagna in groppa al suo asino. Che lui e la moglie, Angela Vesco, avessero deciso di tenerlo, per poi portarlo, con i figli naturali, assieme a loro in America. Proprio durante questo viaggio il piccolo Giuseppe avrebbe scoperto, in seguito alle domande insistenti di un impiegato, di essere stato adottato, e di portare un nome diverso da quello che aveva creduto fino a quel momento: Giuseppe Segreto appunto. Tornato in Italia assieme alla famiglia, sarebbe riuscito dopo alcune ricerche a rintracciare la madre naturale. E a questo punto la memoria familiare si carica di suggestioni romanzesche nel raccontare l’incontro fra i due: Giuseppe che cammina per il corso e si infila in un vicolo di fronte la chiesa di San Paolo, lì dove un arco racchiude un piccolo cortile: qui gli hanno detto che vive sua madre. E qui la trova, una signora giovane che getta grossi secchi d’acqua davanti all’uscio e spazza le balate con una scopa di paglia.

Ma la donna non vuole riconoscerlo: “Iè figghi unn’haiu” gli avrebbe risposto. E Giuseppe, vinto dalla delusione, decide di tornarsene, stavolta definitivamente, in America. Qui, con la sua partenza, si chiude la storia che avevo sentito tante volte da bambina.

E da qui sono ripartita qualche anno fa, quando ho voluto tirare fuori tutta questa storia e ripulirla dagli orpelli di cui negli anni era stata rivestita.

Gli archivi digitali di Ellis Island registrano il primo sbarco in America di Giuseppe Segreto, nel 1914, con la famiglia, e il secondo, nel 1922. Questa volta è solo. Ha diciassette anni. In tasca 27 dollari. Come parente più prossimo nel paese di provenienza indica: step-mother Angela Vesco. Luogo da raggiugere: Brooklyn.

Diverse volte ho avuto l’impressione che questa storia cercasse solo una spinta per venire fuori. Così è capitato che nell’America dove tutto cambia in un niente, gran parte della famiglia Segreto attraversasse novant’anni di guerre e rivoluzioni e si trovasse ancora a Brooklyn nel 2012. Qui li ho rintracciati con una veloce ricerca online: sono i cinque figli di Giuseppe Segreto, tutti nati fra gli anni ’30 e ’40, con le loro famiglie, nipoti e pronipoti. E soprattutto, sono tutti ancora on God’s good earth, come amano dire.

Sono stati loro a raccontarmi la seconda parte della storia: che Giuseppe, per i primi anni in America, si era ingegnato a fare mille mestieri. Per un periodo raccatta vecchi vestiti da rivendere. E da Brooklyn cominciano ad arrivare ad Alcamo grossi pacchi di robbe americane: li manda al fratello Giuseppe, padre di sette scalmanate figlie femmine.

Ma la New York degli anni ’20 e ’30 è un cantiere aperto: così, diventato un tile setter, un operaio specializzato in mattonelle in ceramica, Giuseppe Segreto comincia a lavorare nelle decine di stazioni della metropolitana in costruzione proprio in quegli anni. E dalle sue mani, e da quelle di altre centinaia di operai, nascono i bellissimi mosaici di piastrelle che si possono ammirare ancora oggi nel sottosuolo di New York. Anni dopo, aprirà una sua personale società di servizi igienico-sanitari con diversi impiegati. Alcuni dei nipoti italiani lo raggiungono negli Stati Uniti. Muore a Brooklyn nel 1977.

Riscoperto il (lieto) finale della storia, mi mancava di verificarne l’inizio. L’ho trovato raccontato su un foglio all’Ufficio anagrafe del Comune di Alcamo. Vi si legge che la mattina del 15 novembre del 1904 la portinaia dell’ospedale comunale dichiara di aver trovato davanti la porta un infante, da affidare per l’allevamento ad Angela Vesco, di professione balia.

Per un caso curioso però, il bambino è registrato nell’atto come femmina: Giuseppa Segreto. A partire da questo strano errore ho ideato l’equivoco su cui ho costruito la trama del mio racconto.

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