Il marciapiede di Popò

Il malessere del cittadino siculo si esprime con delle caratteristiche peculiari, proprie ed originali. Tutto ciò che non incontra il suo gusto, infatti, diventa oggetto di lagnanza e lamentela; attenzione non ho detto di giustificata o meno protesta civile, ma proprio di continua, strisciante lamentela nei confronti di chi “non fa niente”, stando bene attento – il buon cittadino siciliano – a non alzare un dito in prima persona per riparare quanto nota di sbagliato. Poniamo l’esempio dell’ottimo sig. Liborio D…, detto Popò dagli amici (e di chi non è amico in paese, il rispettato caposquadra della Telecom in pensione!) che come ogni mattina si affaccia dalla porta-persiana al pian terreno di casa sua, contemplando il verde del giardino pubblico di fronte a sé. Come fa sempre nel periodo caldo dell’anno, si dispone a portare fuori sull’ampio marciapiede antistante, la sua sedia preferita, una semplice seduta fatta di strisce di plastica colorate, tese sul leggero telaio in allumino. La facciata della palazzina, nella quale il sig. Popò occupa il pianterreno e il primo piano, è esposta ad ovest, per cui fino a mezzogiorno lì davanti si gode dell’ombra spesso rinfrescata da un venticello marino. Accorrono per tale motivo, i vicini pensionati del luogo, ognuno con la propria sedia, facendo capannello su quel marciapiede così spazioso. La fortuna, ma anche la bravura di scegliere quel luogo tanti anni fa, quando costruì con le sue mani, cantone sopra cantone quella palazzina – senza progetti o permessi del Comune, allora non era necessario; la burocrazia e le carte per mettere tutto in regola sono venute dopo, e si è dovuto persino pagare il geometra! – è stata che davanti non ha costruito nessuno, perché prima c’era un parcheggio di camion e negli ultimi anni il Comune l’ha trasformato in un giardino pubblico, con il verde, una statua (di quelle moderne che non si capiscono) e i giochi per i bambini. A lui piace vedere i ragazzini divertirsi seguiti dagli sguardi distratti delle rumene che si siedono tutte in fila a chiacchierare. È la gioventù, non gli danno fastidio nemmeno le grida più forti che a volte arrivano fino alla sua finestra nel pomeriggio mentre riposa. Il vecchio zù Turiddu, detto ‘u Picciuni (una ‘ngiuria familiare), invece, non fa che lamentarsene, brontola che i ragazzini non lo fanno dormire dopopranzo, che il Comune dovrebbe far rispettare il silenzio almeno fino alle 4 del pomeriggio. Lui ha la camera da letto al pianterreno e forse sente le grida più forti. O forse, pensa Popò, anche se più anziano ci sente meglio di me, che perdo un po’ di colpi con l’udito. Però le voci dei ragazzini a lui sembrano sempre gioviali, gli piace nel pomeriggio svegliarsi e sentire la piazza animata.   Stamani però qualcosa lo disturba: qualche scalmanato ha rotto una bottiglia di birra proprio sul “suo” marciapiede, forse lanciandola da un’auto in corsa. I cocci di vetro e la birra non si trovano proprio davanti alla sua porta, ma un po’ sulla destra, vicino alla stenta aiuola di lantana che lui qualche volta innaffia, per aiutare la pianta a sopportare le più tremende giornate di scirocco. In quei giorni è mosso a pietà dalle foglie avvizzite, i rametti coi fiori curvi all’ingiù. Ma non sarebbe compito suo curarla, se è sul suolo pubblico, dovrebbe pensarci il Comune, ce ne sono tanti lì di scansafatiche! Piazza la sua seggiola appena verso sinistra, per allontanarsi dagli schizzi di birra, e in breve tempo viene raggiunto dal compare Santino (che di cognome si chiama Campo, per cui ha sempre preferito il diminutivo del suo nome, tanto da pensare addirittura di richiedere all’anagrafe la modifica; Popò, prendendo a cuore la pena del compare, gli ha però spiegato che nella firma va prima il nome, per cui ora non è più costretto a lasciare una sigla inintelligibile vergognandosi di vergare con il nome di Campo Santo i documenti ufficiali). Il compare, sistemata la propria sedia celeste bene accostata a Popò, ritenendo di sostenere il giusto sdegno dell’amico, subito attacca una filippica sulle nuove generazioni senza un briciolo di senso civile. “Socco c’insignano ‘a la scola?!?”, conclude tra l’esclamazione e la domanda retorica, come se a scuola insegnassero davvero a lanciare bottiglie di birra semipiene dalle vetture in movimento. Vi sembrerà strano che con tanto largo il compare abbia affiancato la sedia a quella di Popò, invece di metterla ruotata magari ad una certa distanza come in un salotto; è perché non conoscete le abitudini degli altri pensionati che stanno per arrivare: si frapporrebbero tra l’uno e l’altro rivolti verso il centro della piazza. Gli habitué del marciapiede di casa Popò infatti non amano rivolgersi lo sguardo a vicenda, ma chiacchierano con il viso rivolto a qualcosa di lontano, perduto. Arrivano infatti ad uno ad uno gli altri, zù Turì ‘u Picciuni, Petro l’Americano, Nanà Viola, Vito u Pirollu, disponendo le sedie fianco a fianco. Per ultimo, come di consueto, li raggiunge don Minzione, l’unico tra loro a permettersi grazie ad una sufficiente floridezza fisica ed economica di sfoggiare una bella pancia prominente. “La sua importanza” la chiama. Il fatto del giorno è, naturalmente, quella bottiglia di birra e i suoi cocci, occorsi ad alterare, seppur minimamente, la consueta posizione del gruppetto. (Una avvertenza: qui preferisco non utilizzare il dialogo al naturale, sarebbe troppo infarcito di forme dialettali. Cercherò di renderlo in italiano, con qualche concessione alle espressioni più colorite.) Lu zù Turì, il più mattiniero, racconta che stamani “quelli della munnizza” sono passati, ma siccome la mattina prendono l’organico, non si sono degnati di spostare neanche un coccio di vetro. Seee, interviene Santino, quindi secondo loro ci tocca aspettare fino a sabato (giornata designata per la raccolta del vetro, nota dell’a.)? Sentite bene, esordisce don Minzione con aria d’importanza, una volta non era così, c’erano gli spazzini che pulivano strade, marciapiedi e giardini: ora i “cristiani” non vogliono più fare niente. È il Comune, rileva Nanà Viola, è il Comune che li dovrebbe controllare, (e poi ripete quasi tra sé, come fa spesso) che deve controllare. Il Comune, seee, continua sullo stesso tono Santino, qua lo vedete che per il giardino pubblico quelli del Comune si fanno vedere una volta ogni morte di Papa? È morto il Papa, domanda Vito u Pirollu che è un po’ duro d’orecchi, ma quando? No, non hai capito, cerca di spiegare Santino, era per dire… Silenzio. Sguardi allungati sulla lontana sagoma del monte a occidente. Quando io ero all’America, comincia Petro… Si, lo sappiamo, là è tutto pulito, lo blocca Popò. Magari quando vengono per il giardino, azzarda il compare Santino, fanno la pulizia pure dei marciapiedi. Vengono una settimana da oggi, precisa u zù Turì. Ma come fai a dirlo? gli domanda il compare. Perché sempre sono venuti ad inizio settimana, una sì e una no. Sentite bene, sentenzia don Minzione, entro la prossima settimana passeranno e il qui presente Popò gli farà notare di ripulire il marciapiede: ecco risolto il busìnness. Ma che è, domanda Nanà Viola, che è come un nuovo filobus, come un filobus? È una parola latina Nanà, risponde Popò. All’America ‘sta parola c’era, ricorda Petro l’Americano, voleva significare affari, piccioli, moneta. Tutti annuiscono. Silenzio. Certo che anche tutti quei fiori per terra, ricomincia Santino riferendosi ad un grosso albero in un angolo della piazza, hanno fatto oramai un tappeto sui mattoni, che aspettano a pulire? Va bé saranno tre giorni che sono cominciati a cadere, risponde Popò, sono belli pure se sporcano. Ma i fiori sono niente, interloquisce Nanà Viola, che non sono niente: qua dietro in via Arrivabene, c’è una perdita d’acqua da quindici giorni, che c’è una perdita da quindici giorni; nessuno s’è visto, che nessuno s’è visto. Ascoltate bene, pontifica don Minzione, pare a me che questo non è giusto. È terribile, uno spreco, rimarca Santino, e loro là al Comune che fanno? Niente, nessuno fa niente.

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