Immigrazione e solidarietà

Trent’anni fa mi trovavo a Torino dove frequentavo l’Università. Lì condividevo una soffitta con altri due studenti meridionali e uno cuneese. Naturalmente noi “meridionals” avevamo un modo di comportarci simile, mentre il ragazzo di Cuneo tendeva a tenersi un po’ in disparte, a puntualizzare in modo per noi troppo preciso quale fosse il suo latte, il suo yogurt, fino a mettere i cartellini con i nomi su tutta la roba da mangiare. Anche i soldi usati per le spese in comune, lui pretendeva venissero divisi alla lira, mentre tendenzialmente noi “meridionals” eravamo più scialacquoni e meno attenti. Il nostro coinquilino, poi, tornava a casa ogni fine settimana, ma non ci aveva mai invitato: all’epoca giudicavo tali atteggiamenti come segno di una differente generosità tra un piemontese e un meridionale. Inoltre, spesso per la strada o al mercato, ascoltavo conversazioni cariche di un feroce rancore nei confronti dei “terroni” che andavano su a rubare i posti di lavoro. Così, inizialmente mi sentivo mal sopportato lì.

Con il tempo però imparai che Torino è una città abitata quasi esclusivamente da ex meridionali e ascoltando bene la gente che parlava male dei terroni, pur condito da molti “né” o “cerèa madamin”, spesso l’accento non era quello giusto, ma oriundo pugliese o aspirato calabrese. Tutti meridionali, solo lì da più tempo. Erano proprio loro i più accaniti avversari dei nuovi arrivati!

Così ho cominciato a capire che i piemontesi veri non ce l’avevano con noi e che il nostro coinquilino era solo un ragazzo con abitudini diverse dalle mie, che piano piano imparava a confrontarsi con il nostro modo di gesticolare, di parlare a voce alta, di essere invadenti con domande personali, di condividere denari e pensieri, anche non richiesti. Diventammo molto amici e alla fine dell’anno fummo invitati a casa sua.

Oggi però aprendo i giornali vedo che in Italia e in Europa non c’è affatto più tolleranza di trent’anni fa (tolleranza è una brutta parola, perché indica il minimo sentimento verso qualcuno che sopporti appena, ciò che ci vorrebbe è solidarietà nei confronti di chi si trova in difficoltà). Oggi guardo Bossi, moglie siciliana di Favara e figlio “mezzosangue”, accanirsi contro il Sud. Poi durante la nuova e prevedibilissima ondata migratoria dal Nord Africa, lasciare soli per più di un mese gli eroici abitanti di Lampedusa mettendo alla prova la loro resistenza e le risorse locali. Solo per guadagnare qualche consenso al Nord con la tecnica della paura dell’uomo nero, fino all’avvento miracolistico del Leader maximo che tutto sgombra, che tutto esaudisce come il genio (calvo) della lampada.

Nel frattempo la gente muore nel Canale di Sicilia e invece di dare loro aiuto, noi popolo di migranti, ci ripromettiamo di rispedirli da dove vengono. Magari per far loro rischiare la vita una seconda volta su di un barcone mezzo sfondato comprato in Italia. Con i francesi che fanno passare il confine di Ventimiglia  solo ai migranti che hanno sufficiente denaro (se ne avessero avuto a sufficienza sarebbero rimasti a casa a guardare la tele anche loro) e l’Europa immobile, preoccupata solo delle sue banche.

A proposito di banche, le cose non vanno meglio nella civilissima Svizzera dove il nuovo leader xenofobo (tale Bignasca, di chiare origini italiane) ha preso il 30% nelle elezioni del Canton Ticino con lo slogan “i frontalieri italiani verranno cacciati a calci in culo”. Cioè gli italiani del Canton Ticino pare non sopportino la concorrenza di altri italiani che ogni giorno attraversano il confine per andare a lavorare.

Insomma è la guerra di chi ha appena raggiunto il benessere e, invece di condividerlo, si aggrappa al piccolo tornaconto personale scalciando contro chi tenta di raggiungerlo. È il modo di vedere meschino di una società senza ideali e senza orizzonti. E dove gli uomini non si sentono più fratelli.

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